Copertina di Valeri Dyrzi Tarazov
Queste di Croce di carne son pagine di orrore. La più
spietata e sistematica mortificazione dell'uomo sotto specie di nemico
politico, le più assurde e le più grette persecuzioni in
atto nelle carceri della dittatura di Hoxha sono, dal vivo, il tema, anzi
sono addirittura l'elemento di queste poesie di Visar Zhiti.
C'è forse, ma non lo ricordo, e soprattutto non
la ricordo così fresca e immediata, un'opera scritta in presa altrettanto
diretta con il mondo che rivela ed attesta. In quelle prigioni Zhiti è
stato tenuto per anni, esposto alle violenze e all'arbitrio. Giorno per
giorno la composizione di versi da occultare o da tramandare oralmente
trascriveva cronache minute o pensieri di ogni genere dei reclusi.
Ma queste sono anche pagine vittoriose di poesia. La
vitalità del principio per cui viene pagato questo scotto inumano:
la libertà sostiene i versi di Visar Zhiti anche quando sono occupati
da tetri argomenti. Quella vitalità intrinsecamente sicura di sé
entra non solo nell'umore e nel tono del combattente ma anche nello spirito
e nella invenzione dell'artista.
I suoi liberi, ariosi, arditi estri hanno una felice
somiglianza con la stagione cubofuturista e con la sua fertilità
di metafore. Proprio in virtù di questa vena gli riesce facile e
spontneo ampliare l'orizzonte delle prime dure emozioni alla varietà
del mondo intero. L'allegria della poesia, è il caso di dirlo, travolge
il nero grumo della realtà obbrobriosa.
Rimane nuda in piena vista, la mostruosità di
una tirannide. Si libera da quella morsa un vero, forte poeta.
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