IL REGNO DELLA VIRTù E IL GOVERNO DEI FILOSOFI
Nel 250° anniversario della nascita del grande ed immortale rivoluzionario francese
Maximilen Robespierre (1758-1794)
Sulla costituzione e Sul governo rappresentativo
Il discorso del 10 maggio 1793 pronunciato alla Convenzione: Sulla Costituzione. Il testo originale è in Oeuvres de Maximilien Robespierre, Société des études robespierristes, Parigi, 1961-1967, a cura, fra gli altri, di Marc Bouloiseau, Georges Lefebvre e Albert Soboul, v. IX, pp. 495-508; il testo italiano è in Maximilien Robespierre, La rivoluzione giacobina, a cura di Umberto Cerroni, Roma, Editori Riuniti, 1984, pp. 127-144.
L’uomo è nato per la felicità e per la libertà: e tuttavia egli è dappertutto schiavo ed infelice! La società ha per scopo la conservazione dei suoi diritti e la perfezione del suo essere: e tuttavia dappertutto la società lo degrada e lo opprime!
Ma è giunto il tempo di richiamarlo ai suoi veri destini: i progressi della ragione umana hanno preparato questa grande rivoluzione e proprio a voi spetta il dovere di accelerarla.
Per compiere la vostra missione, occorre che facciate proprio tutto il contrario di quello che si è fatto prima di voi.
Fino a questo momento, l’arte di governare non è stata altro che l’arte di spogliare e di asservire la maggioranza a profitto di una minoranza; e la legislazione non è stata altro che lo strumento per erigere questi attentati a sistema.
I re e gli aristocratici hanno compiuto alla perfezione il loro mestiere: ora spetta a voi di compiere il vostro, cioè di rendere gli uomini felici e liberi attraverso le leggi.
Dare al governo la forza necessaria perché i cittadini rispettino sempre i diritti dei cittadini; e fare in modo che il governo non possa mai violarli: ecco, a mio parere, il duplice problema che il legislatore deve cercare di risolvere.
Il primo mi sembra molto semplice. Quanto al secondo, saremmo tentati di considerarlo insolubile, se prestassimo attenzione solo agli avvenimenti del passato e a quelli presenti, senza risalire alle loro cause.
Scorrete la storia: e vedrete dappertutto i magistrati opprimere i cittadini ed il governo annientare la sovranità. I tiranni parlano di sedizioni; il popolo si lamenta della tirannide, quando pure osa lamentarsi, il che accade solo quando un’oppressione eccessiva gli restituisce la sua energia e la sua indipendenza.
Volesse Dio che esso potesse conservarle sempre! Ma il dominio del popolo dura un giorno solo, quello dei tiranni, invece, si estende per la durata dei secoli.
Ho sentito parlar molto di anarchia dopo la rivoluzione del 14 luglio 1789, e soprattutto dopo la rivoluzione del 10 agosto 1792; ma io sostengo che la malattia degli organismi politici non è affatto l’anarchia, bensì il dispotismo e l’aristocrazia.
Ritengo – checché se ne sia detto – che è proprio da quell’epoca tanto calunniata che noi abbiamo ricevuto un principio di legislazione e di governo, malgrado i torbidi; i quali non sono altra cosa che le ultime convulsioni della monarchia spirante, e la lotta di un governo infedele contro l’uguaglianza.
L’anarchia ha sempre regnato in Francia da Clodoveo fino all’ultimo dei Capetingi. E che cos’è mai, allora, l’anarchia, se non la tirannia, la quale fa discendere dal loro trono la Natura e la Legge, per mettervi al loro posto alcuni uomini?
I mali della società non provengono mai dal popolo, bensì dal governo. E come potrebbe mai essere diversamente? L’interesse del popolo è, infatti, il bene pubblico, l’interesse di un singolo uomo è, al contrario, un interesse privato. Per essere buono, il popolo non deve far altro che anteporre se stesso, a tutto il resto; mentre, per essere buono, il magistrato deve invece immolare se stesso al popolo.
Se mi degnassi di rispondere a certi pregiudizi assurdi e barbari, farei osservare che sono sempre il potere e l’opulenza che partoriscono l’orgoglio e tutti i suoi vizi; e che sono invece il lavoro, la vita mediocre, la povertà, ad essere i guardiani della virtù; che le aspirazioni del debole hanno solo per oggetto la giustizia e la protezione da parte di leggi benefiche; che egli stima soltanto le passioni dell’onestà; e che invece le passioni dell’uomo potente tendono a sollevarsi al di sopra delle leggi giuste, oppure a crearne di tiranniche. Sosterrei infine che la miseria dei cittadini altro non è se non il crimine dei governi.
Ma stabilisco il fondamento del mio sistema con un solo ragionamento.
Il governo è istituito per far rispettare la volontà generale: ma gli uomini che sono al governo hanno, invece, una volontà particolare: ed ogni volontà particolare tenta di dominare sulle altre.
Ora, se essi impiegano in questa direzione la forza pubblica di cui sono dotati, allora il governo è solo il flagello della libertà.
Ne concluderete, dunque, che l’obiettivo principale di qualsiasi Costituzione deve essere quello di difendere la libertà pubblica ed individuale contro il governo stesso.
Ed è precisamente questo obiettivo che i legislatori hanno dimenticato. Essi si sono occupati solamente del potere del governo. Nessuno ha mai pensato a cercare i mezzi per poterlo ricondurre nei limiti di quella che ne è la vera essenza.
Essi hanno preso infinite precauzioni contro l’insurrezione del popolo, mentre hanno incoraggiato – per quanto potevano – la rivolta dei suoi delegati.
Ne ho già indicato le ragioni: l’ambizione, la forza e la perfidia sono state sempre i legislatori del mondo.
Essi hanno soggiogato perfino la ragione umana, depravandola, e l’hanno resa complice della miseria dell’uomo. Il dispotismo ha prodotto la corruzione dei costumi, e la corruzione dei costumi ha sostenuto il dispotismo. In tale stato di cose, vi è chi venderà la sua anima al più forte, legittimando 1’ingiustizia e divinizzando la tirannia. E allora la ragione non è più altro che follia; e l’uguaglianza non è più altro che anarchia; e la libertà, disordine; e la natura, una chimera; ed è ribellione il ricordare i diritti dell’umanità. E allora vi sono solo Bastiglie o patiboli per la virtù, palazzi per la dissolutezza, troni e carri di trionfo per il crimine. Allora, vi sono i re, i preti, i nobili, i borghesi, e la canaglia: ma non già un popolo; non già degli uomini.
Osservate quegli stessi legislatori che sembrano essere stati costretti – dal progresso della pubblica ragione – a rendere un qualche omaggio ai princìpi. Osservate se essi non hanno forse impiegato tutta la loro abilità per eluderli, quando non potevano più accordarli con le loro ambizioni personali. Osservate se essi hanno fatto altra cosa che variare le forme del dispotismo e le sfumature dell’aristocrazia. Hanno fastosamente proclamato la sovranità del popolo, ma in realtà lo hanno incatenato; e nel riconoscere che i magistrati sono i suoi mandatari, li hanno poi trattati come i suoi dominatori e come i suoi idoli.
Tutti si sono sempre trovati d’accordo nel presupporre che il popolo sia insensato e ribelle, e che i funzionari pubblici siano essenzialmente saggi e virtuosi. E senza andare a cercare esempi presso le nazioni straniere, potremmo trovarne di ben clamorosi nel seno della nostra stessa rivoluzione e nella stessa condotta delle legislature che ci hanno preceduto. Osservate con quanta viltà esse incensavano la monarchia! E con quanta impudenza predicavano la fiducia cieca nei riguardi dei pubblici funzionari corrotti! E con quale insolenza avvilivano il popolo, e con quale barbarie esse lo stavano assassinando!
Tuttavia, osservate da quale parte stavano mai le virtù civiche. Ricordatevi i sacrifici generosi sopportati dall’indigenza, e la vergognosa avarizia dei ricchi. Ricordatevi l’abnegazione sublime dei soldati e gli infami tradimenti dei generali; il coraggio invincibile, la pazienza magnanima del popolo, ed il vile egoismo e l’odiosa perfidia dei suoi mandatari.
Ma non dobbiamo meravigliarci troppo di tante ingiustizie. Nell’uscire da una corruzione così profonda, come potevano mai, essi, rispettare l’umanità, amare l’uguaglianza, credere nella virtù? Sventurati noi! Noi innalziamo il tempio della libertà con mani ancora marchiate dai ferri della schiavitù!
E che cos’era mai la nostra antica educazione, se non una continua lezione di egoismo e di bassa vanità? E che cos’erano mai i nostri usi e le nostre pretese leggi, se non il codice dell’impertinenza e della bassezza, dove il disprezzo per gli uomini era sottomesso ad una specie di classifica, e graduato secondo regole bizzarre e complicate? Disprezzare, ed essere a nostra volta disprezzati; strisciare, per poter dominare; schiavi e tiranni, alternativamente; ora in ginocchio dinanzi ad un padrone, ora dando calci al popolo. Questo era il nostro destino, quella era la nostra ambizione; proprio quella di tutti sia che fossimo uomini ben nati, o uomini ben educati, gente onesta oppure gente come si deve, uomini di legge e finanzieri, magistrati o guerrieri.
E dobbiamo dunque meravigliarci se tanti mercanti stupidi, se tanti borghesi egoisti conservano ancora nei riguardi degli artigiani quel disprezzo insolente che i nobili prodigavano ai borghesi ed agli stessi mercanti?
Oh, il nobile orgoglio! Oh, la bella educazione! Ed ecco, allora, perché mai i grandi destini del mondo si sono fermati! Ecco perché la patria è lacerata dai traditori! Ecco perché mai i feroci sgherri dei despoti dell’Europa hanno devastato i nostri raccolti, incendiato le nostre città, massacrato le nostre donne ed i nostri bambini! È già stato versato il sangue di trecentomila francesi e sarà forse versato il sangue di altri trecentomila prima che il semplice lavoratore abbia il diritto di sedere in senato accanto al ricco mercante di grano; prima che l’artigiano possa votare nelle assemblee del popolo accanto all’illustre negoziante od al presuntuoso avvocato; e prima che il povero, intelligente e virtuoso, possa tenere l’atteggiamento di un vero uomo alla presenza del ricco imbecille e corrotto.
Insensati! Voi, che chiamate dei padroni perché ora non ne avete di eguali, credete dunque che i tiranni asseconderanno tutti i calcoli della vostra trista vanità e della vostra bassa cupidigia? O credete forse che il popolo, il quale ha conquistato la libertà, il quale ha versato il suo sangue per la patria quando voi dormivate nella mollezza o cospiravate nelle tenebre, si lascerà incatenare, affamare, assassinare da voi?
No certo. Se non sapete rispettare né l’umanità, né la giustizia, né l’onore, conservate, almeno, una qualche cura per i vostri tesori, i quali non hanno altro nemico se non l’eccesso della miseria pubblica, che voi state aggravando con così grande imprudenza.
Ma quale motivo mai potrà convincere degli schiavi orgogliosi? Contro di loro, la legge della verità – che tuona anche nei cuori corrotti – rassomiglia ai rumori che echeggiano nelle tombe e che non ridestano i cadaveri.
Voi dunque, a cui è cara la libertà e la patria, incaricatevi voi soli della cura di salvarla; e poiché il momento in cui l’esigenza pressante della sua difesa richiederebbe tutta la vostra attenzione è proprio quello in cui si vuole fondare – troppo precipitosamente – l’edificio della Costituzione di un grande popolo, cercate almeno di fondarla sulla base eterna della verità. E ponete in principio questa massima incontentabile: che il popolo è buono, e che i suoi delegati sono corruttibili; che è nella virtù e nella sovranità del popolo che bisogna cercare una barriera contro i vizi ed il dispotismo del governo.
Da questo principio incontentabile tiriamo ora alcune conseguenze pratiche, le quali sono altrettanti fondamenti di ogni libera Costituzione.
La corruzione dei governi ha la sua fonte nell’eccesso del loro potere e nella loro indipendenza nei confronti del popolo sovrano. Dovete rimediare a questo duplice abuso.
E cominciate con il moderare la potenza dei magistrati.
Finora, quei politici che sembrano voler fare un qualche sforzo – non tanto per difendere la libertà quanto per modificare la tirannia – hanno saputo immaginare solo due mezzi per poter pervenire a questo scopo: l’uno è quello dell’equilibrio dei poteri; l’altro è il tribunato.
Quanto all’equilibrio dei poteri, noi abbiamo potuto essere le vittime di questa illusione, in un tempo in cui la moda sembrava esigere da noi questo omaggio ai nostri vicini, in un tempo in cui l’eccesso della nostra degradazione ci poteva permettere di ammirare tutte le istituzioni straniere che ci offrivano qualche debole parvenza di libertà.
Ma, per poco che riflettessimo, ci accorgeremmo agevolmente che quell’equilibrio può essere solo una chimera od un flagello; che esso presupporrebbe l’impotenza assoluta del governo, se non conducesse necessariamente ad una lega dei poteri rivali contro il popolo: poiché si avverte agevolmente che essi preferiscono assai più accordarsi che non chiamare il sovrano (1) a giudicare delle proprie contese.
Ne è testimone l’Inghilterra, nella quale l’oro e il potere del monarca fanno costantemente pendere la bilancia dalla stessa parte; dove lo stesso partito dell’opposizione si limita a sollecitare, di tanto in tanto, la riforma della rappresentanza nazionale, ma solo per allontanarla, in pieno accordo con quella maggioranza che essa fa mostra di combattere. È una sorta di governo mostruoso, nel quale le virtù pubbliche sono solo una scandalosa parata, dove il fantasma della libertà annienta la libertà stessa, dove la legge consacra il dispotismo, dove i diritti del popolo sono oggetto di un traffico riconosciuto, dove la corruzione si è liberata perfino dal freno del pudore.
E che cosa ci importano mai le combinazioni che equilibrano l’autorità dei tiranni? È la tirannia stessa che occorre estirpare: e non è certo nelle contese tra i loro padroni che i popoli devono cercare il vantaggio di poter respirare un qualche istante; la garanzia dei loro diritti dev’essere posta nella propria forza.
Per la medesima ragione non propendo nemmeno per l’istituzione del tribunato. La storia – infatti – non mi ha insegnato davvero a rispettarla.
Non confiderò certo la difesa di una così grande causa ad uomini deboli o corruttibili. La protezione da parte dei tiranni presuppone la schiavitù del popolo.
E non mi piace affatto che il popolo romano si ritiri sul Monte sacro per chiedere protettori ad un senato dispotico e a patrizi insolenti: preferisco invece che esso rimanga in Roma e che ne scacci tutti i tiranni. Ed odio, in misura eguale agli stessi patrizi, ed anzi disprezzo molto di più, quei tribuni ambiziosi, quei vili mandatari del popolo, i quali vendono ai poten ti di Roma i loro discorsi ed il loro silenzio e che talora hanno difeso il popolo solo per mercanteggiare con i suoi oppressori la sua libertà.
Vi è un solo tribuno del popolo in cui io possa confidare: il popolo stesso. È a ciascuna sezione della Repubblica francese che io affido il potere tribunizio; ed è facile organizzarlo in una maniera egualmente lontana sia dalle bufere della democrazia assoluta sia dalla perfida tranquillità del dispotismo rappresentativo.
Ma, ancor prima di porre le dighe che devono difendere la libertà pubblica dall’eccesso del potere dei magistrati, cominciamo con il ridurlo ai suoi giusti confini.
1. Una prima regola per giungere a questo scopo è che la durata del loro potere deve essere breve, applicando questo principio soprattutto a quelli la cui autorità è più estesa.
2. Che nessuno possa esercitare nel medesimo tempo più magistrature.
3. Che il potere sia diviso. È meglio moltiplicare i funzionari pubblici che non confidare solo ad alcuni un’autorità fin troppo temibile.
4. Che la legislazione e l’esecuzione siano separate con molta cura.
5. Che le diverse branche dell’esecutivo siano esse stesse distinte più che sia possibile, secondo la natura stessa delle questioni trattate, ed affidate a differenti mani.
Uno dei vizi maggiori dell’organizzazione attuale è la troppo grande estensione di ciascun dipartimento ministeriale, nel quale sono ammucchiate diverse branche di amministrazione, per natura molto distinte tra loro.
E soprattutto il ministero degli interni, tal quale ci si è ostinati a conservarlo finora «provvisoriamente», è una mostruosità politica, che avrebbe certo «provvisoriamente» divorato la nascente Repubblica, se la forza dello spirito pubblico animato dal movimento della rivoluzione non l’avesse difesa finora, sia contro i vizi dell’istituzione, sia contro quelli dei singoli individui.
Del resto, voi non potrete mai impedire che i depositari del potere esecutivo siano dei magistrati molto potenti. Togliete loro, dunque, qualsiasi autorità e qualsiasi influenza estranea alle loro funzioni.
Allontanate dalle loro mani il tesoro pubblico. Affidatelo a depositari e a sorveglianti, i quali non possano partecipare essi stessi ad alcuna altra specie di autorità.
Lasciate ai dipartimenti e nelle mani del popolo quella porzione dei pubblici tributi che non sarà necessario versare nella cassa generale; e che le spese siano pagate sul luogo, per quel tanto che sarà possibile.
Vi guarderete bene dal rimettere somme straordinarie a coloro che governano, sotto qualsiasi pretesto ciò avvenga, e soprattutto se si tratta del pretesto di informare l’opinione pubblica.
Tutte quelle manipolazioni dell’opinione pubblica non forniscono altro che veleni: ne abbiamo fatto recentemente una crudele esperienza: ed il primo esperimento di questo strano sistema non deve ispirarci certamente molta fiducia nei suoi inventori.
Non dovete perdere mai di vista che spetta all’opinione pubblica il compito di giudicare gli uomini che governano, e non già a costoro di spadroneggiare e di creare l’opinione pubblica!
Ma c’è un mezzo più generale, e non meno salutare, per diminuire la potenza dei governi a profitto della libertà e della felicità dei popoli.
Esso consiste nell’applicazione di questa massima, che è enunciata in quella Dichiarazione dei diritti dell’uomo che io vi ho proposto:
«La legge non può vietare se non ciò che è nocivo alla società; essa non può ordinare se non ciò che le è utile».
Fuggite la vecchia mania dei governi di voler troppo governare; lasciate agli individui, lasciate alle famiglie il diritto di fare ciò che non nuoce ad altri; lasciate ai comuni il potere di regolare esse stesse i loro propri affari, in tutto quello che concerne essenzialmente l’amministrazione generale della Repubblica.
In una parola, restituite alla libertà individuale tutto ciò che non appartiene per sua natura all’autorità pubblica: e in tal modo avrete concesso tanto minor presa all’ambizione ed all’arbitrio.
Rispettate soprattutto la libertà del popolo sovrano nelle assemblee primarie (2). Per esempio, se sopprimerete quell’enorme codice che ostacola e che rende inesistente il diritto di votare (3), con il pretesto di regolarlo, toglierete alcune tra le armi più pericolose all’intrigo e al dispotismo dei direttori o delle legislature. E al tempo stesso, semplificando il codice civile, abbattendone i privilegi feudali, le decime, e tutto l’edificio gotico del diritto canonico, verrà ad essere singolarmente limitato il dominio del dispotismo giudiziario.
Tuttavia, benché tutte queste precauzioni siano utili, voi non avrete ancora fatto nulla, se non eliminerete la seconda categoria di abusi che vi ho indicato, e cioè l’indipendenza del governo.
La Costituzione deve sforzarsi soprattutto di sottomettere i funzionari pubblici ad una pesante responsabilità, ponendoli alle effettive dipendenze, non già degli individui, ma del popolo sovrano.
Colui che è indipendente dagli uomini, si renderà ben presto indipendente dai suoi doveri. L’impunità è la madre e la salvaguardia del crimine, ed il popolo sarà sempre asservito se non viene più temuto.
Vi sono due specie di responsabilità: l’una, che si può chiamare morale, l’altra fisica.
La prima consiste principalmente nella pubblicità.
Ma è sufficiente, forse, che la Costituzione assicuri la pubblicità delle operazioni e delle deliberazione del governo? No certo: bisogna darle, ancora, tutta l’estensione di cui essa è suscettibile.
L’intera nazione ha il diritto di conoscere la condotta dei suoi mandatari. E occorrerebbe, se fosse possibile, che l’assemblea dei delegati del popolo deliberasse in presenza dell’intero popolo. Il luogo delle sedute del corpo legislativo dovrebbe essere un edificio vasto e maestoso, aperto a dodicimila spettatori. Così, sotto gli occhi di un così gran numero di testimoni, né la corruzione, né l’intrigo né la perfidia, oserebbero mostrarsi; e sarebbe consultata la sola volontà generale; sarebbe ascoltata solo la voce della ragione e dell’interesse pubblico.
Invece, l’ammissione di poche centinaia di spettatori, incassati in un locale stretto ed incomodo, offre forse una pubblicità proporzionale all’immensità della nazione, soprattutto quando una folla di rappresentanti mercenari atterriscono il corpo legislativo per intercettare o per alterare la verità con resoconti infedeli, che essi diffondono in tutta la Repubblica?
Che avverrebbe, dunque, se i mandatari stessi disprezzassero quella piccola porzione di pubblico; se essi volessero far considerare come due specie differenti di uomini gli abitanti del luogo in cui risiedono e quelli che sono lontani da loro; se essi denunciassero perpetuamente i testimoni delle loro azioni a quelli che leggono i loro libelli, rendendo la pubblicità non soltanto cosa inutile, ma perfino fatale alla libertà?
Gli uomini superficiali non indovineranno mai quanto grande sia stata sulla rivoluzione l’influenza del locale che ha accolto il corpo legislativo e certo i furfanti non ne converranno mai; ma gli illuminati amici del bene pubblico hanno visto con indignazione che – dopo aver richiamato gli sguardi pubblici su sé per opporre resistenza alla corte – la prima legislatura li ha poi evitati quanto più ha potuto, quando ha voluto legarsi alla corte contro il popolo; e che, dopo essersi in qualche modo nascosta nell’arcivescovado, dove essa portò la legge marziale, si è poi fermata nel Maneggio (4), dove si circondò di baionette per ordinare il massacro dei migliori cittadini al Campo di Marte, per salvare lo spergiuro Luigi e per minare le fondamenta della libertà!
E i suoi successori si sono ben guardati dall’uscirne! I re o i magistrati della vecchia polizia facevano costruire, in pochi giorni, una magnifica sala d’Opéra, mentre invece – in ispregio alla ragione umana – sono passati ben quattro anni prima che si fosse preparata una nuova dimora alla rappresentanza nazionale!
Che dico? Anche questa dove essa è appena entrata è forse più adatta alla pubblicità o più degna della nazione? No certo: tutti gli osservatori si sono accorti che essa è stata costruita con intelligenza dallo stesso spirito di intrigo, sotto gli auspici di un ministro perverso, per trincerarvi i mandatari corrotti, lontano dallo sguardo del popolo.
In questo senso, si sono perfino fatti dei prodigi: e si è finalmente trovato il segreto – da tempo ricercato – di escludere il pubblico, pur ammettendovelo: di far sì che esso possa assistere alle sedute, ma non possa ascoltare, se non nel piccolo spazio riservato alla «gente per bene» ed ai giornalisti: insomma, che esso sia ad un tempo presente ed assente.
La posterità si meraviglierà certo della noncuranza con cui una grande nazione ha sopportato così a lungo queste basse e grossolane manovre, le quali compromettono ad un tempo la sua dignità, la sua libertà e la sua salvezza.
Quanto a me, ritengo che la Costituzione non debba limitarsi ad ordinare che le sedute del corpo legislativo e delle autorità costituite siano pubbliche, ma che essa non debba disdegnare, inoltre, di occuparsi dei mezzi per assicurargli la più grande pubblicità possibile; che essa debba interdire ai mandatari il potere di influire – in qualsiasi maniera – sulla composizione dell’uditorio e di restringere arbitrariamente l’estensione del luogo che deve accogliere il popolo. Essa deve provvedere inoltre a che la legislatura risieda nel seno di una immensa popolazione e deliberi sotto gli occhi della più grande moltitudine di cittadini possibile.
Il principio della responsabilità morale esige inoltre che i membri del governo redigano – ad epoche determinate ed abbastanza ravvicinate tra loro – dei rendiconti esatti e circostanziati della loro gestione; che questi rendiconti siano divulgati per mezzo della stampa e sottoposti alla censura di tutti i cittadini; che siano inviati, quindi, a tutti i dipartimenti, a tutte le amministrazioni ed a tutti i comuni.
In appoggio alla responsabilità morale, occorre spiegare la responsabilità fisica, la quale è, in ultima analisi, la più sicura guardiana della libertà: essa consiste nella punizione dei funzionari pubblici prevaricatori.
Un popolo, i cui mandatari non sono obbligati a dare a nessuno il rendiconto della loro gestione, non si può dire che abbia una Costituzione; poiché infatti dipenderà soltanto da costoro tradirlo impunemente o lasciarlo tradire dagli altri. E se è questo il senso che si attribuisce al governo rappresentativo, confesso che impiegherò tutti gli anatemi pronunciati contro di esso da Jean-Jacques Rousseau.
Tuttavia, questa affermazione ha bisogno di essere spiegata, come molte altre: ma si tratta qui non tanto di definire il governo francese, bensì di costituirlo.
In qualsiasi Stato libero, i crimini pubblici dei magistrati devono essere puniti altrettanto severamente e con altrettanta facilità quanto i crimini privati dei cittadini: ed il potere di reprimere gli attentati del governo deve spettare al popolo sovrano.
So che il popolo non può essere un giudice in perenne attività. Così, non pretendo certo questo, ma non voglio neppure che i suoi delegati siano dei despoti al disopra delle leggi.
Si può soddisfare alle esigenze che vi ho qui proposto, con alcune misure semplici, di cui svolgerò la teoria:
1. Voglio che tutti i funzionari pubblici eletti dal popolo possano essere da esso revocati, secondo le forme che saranno stabilite, sulla sola base del diritto imprescrittibile che gli appartiene di revocare i propri mandatari (5).
2. È naturale che il corpo incaricato di fare le leggi sorvegli coloro che sono preposti a farle eseguire: i membri dell’organo esecutivo saranno dunque tenuti a rendere conto della loro gestione al corpo legislativo. In caso di prevaricazione, esso non potrà però punirli – poiché non bisogna lasciargli un mezzo di impadronirsi del potere esecutivo – ma li accuserà dinanzi ad un tribunale popolare, la cui unica funzione sarà quella di giudicare circa le prevaricazione dei pubblici funzionari. I membri del corpo legislativo non potranno essere perseguiti da quel tribunale a motivo delle opinioni che avranno espresso nelle assemblee, ma solo per i fatti positivi di corruzione o di tradimento di cui essi potranno essere accusati. I delitti ordinari che essi potranno commettere sono invece di competenza dei tribunali ordinari.
Allo scadere delle loro funzioni i membri della legislatura e gli organi dell’esecutivo, o ministri, potranno essere deferiti al giudizio solenne dei loro elettori. Il popolo deciderà soltanto «se essi hanno conservato o perduto la fiducia». Il giudizio che dichiarerà che essi hanno perduto la sua fiducia importerà l’incapacità di ricoprire alcuna funzione pubblica. Il popolo non decreterà una pena più grave e, se i mandatari si saranno resi colpevoli di alcuni crimini particolari e formali, esso potrà rinviarli al tribunale stabilito per punirli.
Queste disposizioni si applicheranno in ugual misura anche ai membri del tribunale popolare.
Per quanto sia necessario contenere i magistrati, non lo è meno il saperli scegliere bene: ed è su questa duplice base che la libertà dev’essere fondata. Non dovete perdere di vista il fatto che nel governo rappresentativo non vi sono leggi costitutive così importanti quanto quelle che garantiscono la regolarità delle elezioni.
A questo punto vedo diffondersi pericolosi errori: mi accorgo che proprio su questo punto si abbandonano i princìpi più importanti del buonsenso e della libertà, per inseguire vane astrazione metafisiche.
Per esempio, si vorrebbe che – in tutte le parti della Repubblica – i cittadini votassero per la nomina di ciascun mandatario. Ma in questo modo l’uomo di merito e di virtù conosciuto solamente nella contrada in cui abita, non potrà mai essere eletto a rappresentare i suoi compatrioti; mentre i ciarlatani famosi – i quali non sempre sono i migliori cittadini né gli uomini più illuminati – oppure gli intriganti, portati su da un partito potente che saprà dominare in tutta la Repubblica, saranno permanentemente ed esclusivamente i rappresentanti di diritto del popolo francese.
Ma, nello stesso tempo, si cerca di incatenare il popolo sovrano con regolamenti tirannici: e dappertutto si disgusta il popolo delle assemblee: e si tengono lontani i sanculotti, attraverso infinite formalità. Che dico? Li si caccia per mezzo della fame: poiché non si pensa neppure ad indennizzarli del tempo che essi rubano al sostentamento delle loro famiglie, per consacrarlo agli affari pubblici.
Ecco, dunque, i principi che sono garanzia di libertà, e che la Costituzione deve tenere per fermi. Tutto il resto non è altro che ciarlataneria, intrigo e dispotismo.
Fate in modo che il popolo possa assistere alle pubbliche assemblee, poiché è solo lui il sostegno della libertà e della giustizia: mentre gli aristocratici e gli intriganti ne sono soltanto il flagello.
Che cosa importa mai che la legge renda un omaggio ipocrita all’uguaglianza dei diritti, quando la più imperiosa di tutte le leggi, la necessità, costringe la parte più sana e più numerosa del popolo a rinunciarvi? Che la patria indennizzi l’uomo che vive del suo lavoro, quando egli assiste alle pubbliche assemblee, che essa – per la stessa ragione – dia un salario proporzionato a tutti i funzionari pubblici; che le regole delle elezioni, che le forme delle deliberazione siano le più semplici e le più rapide possibili; che i giorni delle assemblee siano fissati nelle epoche più comode per la parte lavoratrice della nazione.
Che si deliberi ad alta voce: la pubblicità è il sostegno della virtù, la salvaguardia della verità, il terrore del crimine, il flagello dell’intrigo. Lasciate pure le tenebre e lo scrutinio segreto ai criminali ed agli schiavi: gli uomini liberi vogliono avere il popolo a testimonio dei loro pensieri. Questo è il metodo che forma i cittadini e le virtù repubblicane. Esso solo si addice ad un popolo che ha da poco acquistato la propria libertà e che combatte per difenderla. Quando esso non gli si addirà più, allora non ci sarà più neppure la Repubblica.
Per il resto, che il popolo – lo ripeto – sia perfettamente libero nelle sue assemblee. La Costituzione può stabilire solamente le regole generali necessarie per bandire l’intrigo e mantenere la libertà stessa. Qualunque altro impaccio sarebbe solo un attentato alla sua sovranità.
E soprattutto, che nessuna autorità costituita si immischi mai e abbia mai nulla a che vedere né con la sua polizia, né con le sue deliberazioni.
Con questo, avete già risolto il problema, ancora indeciso, dell’economia politica popolare: di riporre nella virtù del popolo e nell’autorità del popolo sovrano il necessario contrappeso alle passioni del magistrato ed alla tendenza del governo alla tirannia.
Per il resto, non dimenticate che la solidità della Costituzione stessa si sostiene su tutte le istituzioni, su tutte le leggi particolari di un popolo: qualsiasi nome si dia loro, esse devono tutte concorrere con essa al medesimo scopo. Essa si sostiene sulla bontà dei costumi, sulla conoscenza e sul senso profondo dei sacri diritti dell’uomo.
La Dichiarazione dei diritti è la Costituzione di tutti i popoli. Le altre leggi sono mutevoli per loro natura e sono ad essa subordinate. Che essa sia dunque continuamente presente a tutti gli spiriti; che essa brilli in testa al vostro codice pubblico; che il primo articolo di quel codice sia la garanzia formale di tutti i diritti dell’uomo; che il secondo stabilisca che ogni legge la quale li offenda è tirannica ed invalida.
Che essa sia portata con gran pompa nelle vostre cerimonie pubbliche; e colpisca gli sguardi del popolo in tutte le sue assemblee, in tutti i luoghi ove risiedono i suoi mandatari; che essa venga scritta sui muri delle vostre case; che costituisca l’argomento della prima lezione che i padri daranno ai loro figli.
Mi si domanderà forse come mai – con delle precauzioni tanto severe nei confronti dei magistrati – io possa assicurare l’obbedienza alle leggi ed al governo.
Rispondo che io la assicuro innanzitutto proprio con quelle stesse precauzioni. Trasferisco infatti alle leggi ed al governo tutta la forza che tolgo ai vizi dei singoli uomini che governano e che fanno le leggi.
Il rispetto che ispira il magistrato dipende molto più dal rispetto che egli stesso porta verso le leggi, che non dal potere che egli usurpa; e il potere delle leggi risiede non tanto nella forza militare quanto nella loro coerenza con i principi di giustizia e con la volontà generale.
Quando la legge ha per principio l’interesse pubblico, essa ha per sostegno il popolo stesso: e la sua forza è la forza di tutti i cittadini, di cui essa è opera e proprietà.
La forza pubblica è per il corpo politico ciò che per il corpo umano è il braccio, il quale esegue spontaneamente tutto quello che la volontà gli comanda, e respinge tutti gli oggetti che possono minacciare il cuore o la testa.
Quando la forza pubblica non fa altro che assecondare la volontà generale, allora lo Stato è davvero libero e pacifico; ma quando essa la contrasta, allora lo Stato è asservito ed agitato.
La forza pubblica è in contraddizione con la volontà generale in due casi: quando la legge non coincide con la volontà generale; oppure quando il magistrato la adopera per violare la legge.
Di questa fatta è appunto l’orribile anarchia che i tiranni hanno in ogni tempo stabilito, sotto il nome di tranquillità, di ordine pubblico, di legislazione, e di governo. Tutta la loro arte sta nell’isolare e nell’opprimere con la forza qualsiasi cittadino, per asservire ciascuno ai loro odiosi capricci, che essi decorano con il nome di leggi.
Legislatori, fate leggi giuste: magistrati, fatele religiosamente eseguire.
Sia questa tutta la vostra politica. In tal modo potrete offrire al mondo intero uno spettacolo finora sconosciuto: quello di un grande popolo libero e virtuoso.
Il testo integrale in francese è in: http://membres.lycos.fr/discours/constitution.htm
Note
(1) Cioè il popolo.Torna
(2) Cioè le assemblee popolari che designavano gli elettori dei deputati.Torna
(3) Allusione al sistema della elezione indiretta e alle restrizioni al diritto di voto.Torna
(4) Le Tuileries.Torna
(5) Principio applicato ad esempio nella Costituzione della Repubblica Popolare Socialista d’Albania, all'Art. 8, co. 2: «Gli elettori hanno il diritto di revocare in ogni momento il loro rappresentante, qualora questi questi abbia perduto la fiducia politica, qualora non adempia ai doveri assegnatigli o qualora agisca in contrasto con la leggi». Precedendo d’un anno la Costituzione dell’URSS del 1977 (Art. 102) e di due quella della Repubblica Popolare Cinese del 1978 (Art. 29) [ndr].Torna