Lucia
Nuti
(Docente di Storia dell'architettura moderna nellUniversità
di Pisa)
LA CITTÀ NUOVA NELLA CULTURA URBANISTICA
E ARCHITETTONICA DEL FASCISMO
La politica di fondazione fu varata dal regime fascista allinizio
degli anni Trenta e condotta poi sino alle soglie della guerra senza soluzione
di continuità, con una periodicità annuale quasi costante. Aggregata di volta
in volta a scelte vincenti, la bonifica integrale prima, lautarchia poi,
essa non fu mai comunque abbandonata ed ancora dopo il 1940 sotto questo segno
veniva riorganizzato linsediamento nei nuovi grandi comprensori di bonifica
del Tavoliere e del Foggiano (1).
Si può indubbiamente obiettare che le città nuove non erano città nel senso
proprio del termine, sia per lestensione territoriale molto modesta, sia
per lelementarità della popolazione residente. Soltanto due di esse
Littoria e Carbonia superarono di molto le soglie fissate sfuggendo alle
stesse previsioni dei costruttori, ma Carbonia rimase ugualmente per la sua
composizione demografica qualcosa di sostanzialmente diverso da una città.
Ed è ugualmente vero che le nuove fondazioni non erano nate allinterno
di un programma di urbanizzazione delle popolazioni rurali. Si cercava al contrario
di favorire la deurbanizzazione sottraendo manodopera eccedente e potenzialità
conflittuale nelle zone più calde per trasferirla stabilmente sotto il controllo
di più idonei patti di lavoro. Ma la questione città/non città appare presto
superata da un altro dato fondamentale: con limmediata elevazione a comune,
i piccoli centri appena sorti divenivano attivi nei confronti di una porzione
del territorio circostante come sede di funzioni, sia pure elementari. Essi
erano quindi lelemento base di unorganizzazione verticistica del
territorio che dal centro raggiungeva la periferia attraverso una rete di controlli;
rete che in quegli anni si stava appunto riorganizzando con una revisione delle
circoscrizioni amministrative, accorpamenti o smembramenti, promozioni o declassamenti
gerarchici di capoluoghi.
È proprio questo in ultima analisi lelemento unificatore di una sequenza
di interventi altrimenti caratterizzata da settorialità, da incertezze, da improvvisazioni,
da episodicità; e lintera vicenda diviene in questo modo scelta politica.
Poiché però la fondazione non fu gestita direttamente dagli organi statali,
ma passò attraverso il fìtto sottobosco di enti parastatali o anche società
private, i meccanismi innescati non funzionavano poi così direttamente in senso
centripeto, ma furono immediatamente bloccati dal filtro dellEnte costruttore.
In tal modo lEnte, in contrasto o in sintonia con il potere centrale,
diveniva il primo vero detentore di quelle funzioni. Rimane ancora da verificare
quanto il termine «nuova» si spinga al di là dellovvia novità
della presenza urbana su un territorio in precedenza privo di insediamenti e
in che misura sia motivato da scelte culturali nuove.
Mussolini, nellinaugurare Littoria, intendeva questa novità nel rifiuto
di unidentità e di prerogative urbane e respingeva polemicamente per i
nuovi centri anche il nome città (2);
ma le esigenze di propaganda gli avrebbero fatto presto cambiare idea. In seguito
Piccinato, nellillustrare Sabaudia, ne sottolineava la novità rifiutando
ancora il termine città nel senso ottocentesco, come qualcosa «di chiuso,
di murato, qualche cosa di contrapposto alla campagna» (3).
Poco dopo però linvoluzione culturale sempre più pesante doveva attenuare
queste polemiche affermazioni di novità e reinserire le «moderne città
di bonifica» nellalveo della tradizione nostrana.
Verifichiamo allora quale fu la risposta della cultura contemporanea di fronte
al tema, che in quegli anni diveniva occasione concreta, della tanto sognata
progettazione globale che non fosse vincolata da preesistenze storiche.
Quasi paradossalmente la città nuova sulla carta stenta ad assumere una dimensione
che non sia quella ufficiale composta con le veline dei comunicati stampa. E
se questo silenzio agli albori della vicenda, tra il 1928 e il 1932, cioè tra
il primo, incerto costituirsi di Mussolinia e linaugurazione di Littoria,
può essere ancora imputato a disattenzione o sottovalutazione del problema,
la stessa motivazione non è più sostenibile quando nel giro di pochi anni la
propaganda crea ed alimenta, con un bombardamento di immagini e notizie, il
mito della città nuova, esportandolo anche oltre i confini nazionali.
Per la seconda città pontina è bandito un concorso nazionale che coinvolge attivamente
alcuni gruppi di tecnici e sul suo esito si scatena addirittura una baruffa
parlamentare.
Il nome di Sabaudia diviene immediatamente noto, ma non serve ad aprire una
riflessione critica sulla città nuova. La realizzazione anzi fornisce nuovi
argomenti a favore del razionalismo in un dibattito sullarchitettura che
contemporaneamente dilaga sulle riviste, trasformandosi spesso in una polemica
improduttiva.
Casabella che pure costituì in tutti quegli anni la
voce di un dissenso o almeno di una verifica critica sulle principali opere
del regime esclude anche la semplice informazione sulle città realizzate,
con lovvia eccezione di Sabaudia, per la quale Pensabene confeziona un
commento che non si discosta nemmeno troppo dai comunicati ufficiali.
Pagano alla fine del 1942 poteva giustamente vantarsi che la rivista in diverse
occasioni si era occupata di urbanistica (4),
ma ciò era avvenuto soltanto in relazione ai problemi della grande città, sia
sul tema degli scempi perpetrati nei centri storici, sia su quello delle case
popolarissime nei nuovi quartieri operai. Pagano era stato inoltre coinvolto
in prima persona nello studio per il raddoppiamento di un piccolo centro, Portoscuso,
a servizio delle miniere di carbone del Sulcis.
Eppure soltanto a fatica e tra le righe dei suoi scritti di quegli anni, relativi
alla polemica sullarchitettura, si rintracciano due accenni alle città
nuove: uno diretto con labituale sarcasmo contro i progetti architettonici
del Frezzotti per gli edifici pubblici di Pontinia e laltro, molto enigmatico,
sulle inabitabili case di Arsia (5).
Quadrante tra il 1934 e il 1935 diffonde con una raffica
di brevi e confusi articoli la teoria della città corporativa (6).
Il discorso coinvolge vecchie città e fondazioni nuove nel quadro di una revisione
totale dellurbanistica. Secondo la teoria soltanto la formulazione di
un piano regolatore nazionale avrebbe consentito di stabilire preliminarmente,
nel quadro dellinteresse generale, le funzioni da assegnare ad ogni singola
città. La città sarebbe quindi divenuta corporativa in quanto espressione del
carattere corporativo del regime fascista, lontano dallanarchismo liberale,
lontano dalloppressivo collettivismo.
Perché, entro i limiti assegnati dallalto, ogni città avrebbe poi conservato
lindividualità del suo quadro formale, loriginalità del suo volto;
e a plasmarne armoniosamente lanima era chiamato appunto lurbanista.
Sboccata nel vicolo cieco della coincidenza tra forma architettonico-urbanistica
ed espressione politica, la teoria diventava inevitabilmente ancora più vaga
e confusa. Accettava lequazione linea retta/ordine nuovo e razionale ed
identificava la vera espressione del fascismo in geometria, limpidità e chiarezza.
Ma nonostante questo, le prime città pontine risultavano una cocente delusione,
una moneta falsa anche se nuova. Le strade diritte, le facciate regolari erano
solo il riassestamento esteriore di una città vecchia nel contenuto. Loccasione
era stata sprecata, il principio puro inquinato per incompetenza dei tecnici
che non si erano mostrati allaltezza del compito e non avevano bene assimilato
il concetto di città fascista corporativa: fascista nellimpianto urbanistico
(conscia cioè della missione che nel complesso lo Stato deve assolvere) e di
conseguenza nella sua organizzazione e nella sua vita.
Era questa una nuova invocazione da parte degli architetti perché larchitettura
moderna, le cui posizioni ormai progressivamente si indebolivano, fosse salvata
con un atto di forza e fosse proclamata vincente dittatorialmente, come architettura
di Stato.
E lequivoco di questa richiesta che contraddiceva in pieno i princìpi
stessi dellarchitettura moderna non poteva non sfuggire a Persico (7),
la cui sdegnata replica non si fece attendere, mentre la teoria stessa naufragava
nellindifferenza generale.
Ancora una volta, con Persico il dibattito ritornava sullarchitettura
e sulla triste condizione del razionalismo italiano, esasperazione sentimentale
senza fede, camuffato ora, dopo la «romanità» e la «mediterraneità»,
in questultimo travestimento.
Ma Persico nella sua amara requisitoria aveva sottolineato le contraddizioni
di fondo della teoria, tralasciando altre importanti indicazioni di carattere
più propriamente urbanistico che in essa erano contenute e che consentono unaltra
chiave di lettura: la prima era unindicazione di «piano» su
scala nazionale come strumento per una borghesia che intendesse razionalizzare
al massimo i propri interventi sul territorio; la seconda unindividuazione
dellorganismo urbano attraverso le funzioni svolte nei confronti del territorio;
infine lesplicita richiesta di sventramento dei centri storici, per riplasmare
gli spazi adattandoli alle nuove funzioni. Il ruolo dellurbanista veniva
ancora pienamente confermato in quello del tecnico, plasmatore di forme, strumento
della committenza.
Se le scelte operative del regime coincisero di volta in volta con le ipotesi
dei «corporativisti», quelle culturali no. E la proposta, nonostante
fosse ampiamente ammantata di piaggeria nei confronti del fascismo, cadde nel
vuoto.
Neanche il durissimo intervento di Piacentini su Architettura
a proposito del concorso di Aprilia indicava una reale volontà di revisione
del problema o lespressione di una linea alternativa (8).
Può sembrare certo contraddittorio che da una rivista così influente si desse
ufficialmente voce a quel coro di proteste e malcontenti suscitato dal discutibile
verdetto della commissione. Piacentini criticava senza mezzi termini i criteri
di pianificazione adottati nellAgro dallOpera nazionale combattenti
(Onc) e soprattutto il progetto prescelto sottolineandone i numerosi difetti.
Contrapponeva allo schema monocentrico, come generatore del nucleo urbano, lo
schema autoctono delle borgate laziali, costruite attorno a una corte con elementi
edilizi aperti e lineari; di esse il progetto Calza Bini-Nicolini produceva
unoriginale interpretazione. Ma era questa lalternativa?
In realtà Piacentini, aiutato dalleffettiva mediocrità del progetto vincente,
che prestava benissimo il fianco alle critiche, intendeva soltanto contrapporre
clientela a clientela, mirando soprattutto a colpire loperato di Giovannoni,
esperto influente nella commissione giudicatrice. E lazione era pericolosa
perché laccusa era lanciata proprio dalla tribuna di Architettura,
organo ufficiale del Sindacato nazionale architetti, e scatenò come era presumibile
un piccolo terremoto; ma colpì esattamente nel segno che aveva mirato. Non provocò
infatti nessuna reale revisione dei sistemi dellOnc, né tantomeno
aprì un dibattito sulla città nuova; ma solo doveva ottenere, attraverso un
compromesso, un assestamento interno che non mettesse in discussione la gerarchia.
Giovannoni assieme ai progettisti rielaborò totalmente il progetto che conservava
col primo una certa affinità formale; un articolo successivo della redazione
di Architettura commentava con un tono neutro il progetto
attuato; Piacentini stesso infine sostituì Giovannoni nel concorso relativo
a Pomezia, allinterno del quale combatté ancora una volta la battaglia
per la propria clientela. Di fronte alla seconda sconfitta laccomodamento
fu molto più rapido ed indolore.
Se un vero dibattito sulla città nuova non si accese nonostante il moltiplicarsi
delle occasioni, quandanche un solo arco o una sola colonna comparsa nei
nuovi edifici faceva scorrere parole su parole, fu perché la realizzazione era
venuta prima che fosse maturata una coscienza critica del problema e trovava
impreparato il fronte culturale. Il nuovo architetto, uscito fresco fresco dalle
scuole di architettura appena costituite, fu subito trascinato in vaste operazioni
urbane e territoriali in cui dar prova della capacità operativa acquisita. Ladesione
entusiastica ai grandi programmi in cui veniva coinvolto e le stesse lotte per
non esserne escluso ritardarono di fatto la valutazione critica delle scelte
di fondo e della dimensione in cui come tecnico stava operando. La presa di
coscienza doveva venire soltanto molto più tardi, quando le operazioni erano
ormai compiute.
La costruzione delle città nuove fu così condotta senza alcun confronto con
indicazioni o proposte che sarebbero potute derivare da un parallelo dibattito
culturale, e per tutta la fase di pianificazione il tecnico non può neppure
rivendicare il ruolo, di cui spesso si compiace, di suggeritore inascoltato.
Di pianificazione vera e propria non sarebbe neppure il caso di parlare al di
fuori dellunica, debole eccezione della bonifica pontina. La fondazione
della città, decisa in tempi molto brevi, era infatti preceduta soltanto da
poche e rapide operazioni preliminari, totalmente gestite dagli uffici tecnici
dei singoli Enti: delimitazione del territorio comunale, scelta del luogo e
compilazione di quei dati di massima indispensabili alla stesura del progetto
(numero degli abitanti, estensione dellabitato, costo massimo, ecc.).
La scala regionale dellintervento pontino sembra suggerire invece lesistenza
di un piano o almeno di un programma organico su cui condurre le operazioni.
Ma la grande bonifica è da ricondursi innanzitutto a due momenti diversi e a
due diversi comprensori, di cui il secondo non fu che lappendice, condotta
quasi per inerzia, di unoperazione che non era opportuno lasciar cadere.
Quando, al termine della bonifica idraulica del primo comprensorio, i funzionari
dellOnc si trovarono ad affrontare il problema della bonifica agraria
e della forma da dare allinsediamento, la pianificazione si risolse in
una scelta fondata più sullelementarità che sulla razionalità della figura
geometrica: il territorio scandito dalle linee delle migliare e dei canali veniva
suddiviso in maglie ortogonali allinterno delle quali trovava posto lunità
insediativa e produttiva, cioè la casa colonica ed il podere. Linsediamento
sparso, funzionale alla scelta di un contratto di produzione la mezzadria
come cardine dellintero sistema, era di nuovo ricomposto nellunità
dei centri di coordinamento, i borghi prima, le città di bonifica poi. Ad un
numero di poderi corrispondeva un borgo, ad un numero di borghi una città. Il
territorio era così strutturato gerarchicamente attraverso un sistema piramidale
di controlli burocratico-amministrativi, fissati sulla base di una corrispondenza
numerica astratta. A conclusione della prima fase, mentre già era bandito con
grande clamore pubblicitario il concorso per Aprilia, la prima città del nuovo
comprensorio, erano ampiamente valutabili le inadeguatezze e i limiti del sistema
sperimentato con improvvisazione e pressappochismo. Littoria, creata per una
piccola dimensione e divenuta poi capoluogo di provincia, si stava sviluppando
caoticamente con un ritmo non previsto e necessitava di un nuovo piano; Sabaudia,
razionalmente progettata, rimaneva una bella scenografia che si faticava a riempire;
Pontinia, destinata a centro industriale dellAgro, non era andata al di
là di pochi edifici pubblici e pochissime case. Ci si accorgeva chiaramente
insomma che i centri urbani erano ormai più che sufficienti e che sarebbero
state utili più numerose borgate rurali. Simponeva a questo punto una
valutazione dei risultati per procedere ad una pianificazione più attenta. «Ma
rispondeva di Crollalanza a due commissari che gli parlavano appunto
di piano regionale un piano regionale anche sommario richiederebbe un
periodo di tempo che di fatto non si ha, essendo assai prossima la data della
fondazione di Aprilia» (9).
In base a questi principî dunque, veniva completato il programma e costruite
le due ultime città previste, del tutto inutili dal punto di vista di un loro
reale collegamento con lattività produttiva, ma funzionali al prolungamento
del miracolo della provincia redenta fino alle soglie della capitale. Pomezia
in particolare nasceva già come borgata di transito, porta dingresso per
i visitatori di ogni tipo nella regione bonificata. E quindi laccento
della committenza si spostò, come mai era avvenuto prima, sulla ricerca di unimmagine
urbana che qualificasse lintera operazione condotta e ne rappresentasse
un chiaro, leggibile simbolo. Dopo la tendenza alla privatizzazione ed alla
semiclandestinità con cui fu gestita la prima fase, furono banditi e pubblicizzati
al massimo due concorsi nazionali. Ed è appunto tra le righe dei bandi, in una
terminologia ambigua continuamente oscillante tra modernità e tradizione, tra
centro cittadino, comune rurale e borgo fascista, che sintravede limmagine
della città nuova così come, dopo la prima fase di rodaggio, si era composta
agli occhi dei responsabili della bonifica; unimmagine che esprime tanto
bene lideologia della politica di fondazione da essere accettata negli
anni seguenti con poche variazioni, anche per centri sorti in circostanze molte
diverse e che rurali non erano. La modestia era il primo ingrediente di quellimmagine;
e non si trattava tanto di modestia come limitata estensione spaziale, quanto
di una vera e propria categoria estetica non disgiunta da considerazioni di
carattere economico. La necessità di costruire in economia portava allimmediata
esclusione del ferro e del cemento armato ed alla riduzione degli elementi metallici;
si recuperavano dunque i materiali poveri ed i sistemi costruttivi tradizionali
pienamente rispondenti alla modesta entità degli edifìci pubblici. I privati
sarebbero stati ancora più modesti, per dare a quelli il dovuto risalto, e la
piazza principale di dimensioni contenute per non far apparire meschini i fabbricati
circostanti. Altro requisito della città era quello di offrire un ambiente armonico
e gradevole al suo interno, potenziato da un abile sfruttamento degli effetti
panoramici sul paesaggio circostante.
Gli edifici pubblici da soli dovevano già fornire una scenografìa accettabile.
E qui l«armonico» e il «gradevole» rimandavano
a problemi di gusto: e la carta vincente era anche questa volta litalianità
nella sua filiazione più modesta, il «localismo», inteso come rivisitazione
di materiali, moduli costruttivi e decorativi dellarchitettura locale.
Confluivano in questorientamento le suggestioni della rivalutazione, compiuta
da Pagano, dellarchitettura rurale in Italia, vissute in un clima di autarchica
ribellione alle servitù straniere (10);
ma ancor più gli echi che questa riscoperta aveva suscitato nelle teorie di
Giovannoni. Anzi, non è affatto da escludere questultimo tra i possibili
estensori del bando per Aprilia, al cui concorso partecipò in veste di commissario.
Nel testo di una sua contemporanea conferenza sul tema della deurbanizzazione
si leggono enunciati in modo più completo ed esplicito quegli stessi principî
che qua e là traspaiono, nel bando, tra le istruzioni per i concorrenti.
Dopo aver studiato bene quello che si è fatto altrove, dobbiamo tornare a casa nostra ed operare col nostro bravo sentimento italiano.
E le nuove borgate dovranno essere tali da non alterare il carattere dellambiente, pur rispondendo a modernità ed a utilità pratica. Abbiano un nucleo di case compatte, pur non troppo alte, che contengano la piazza principale, raccolta e tranquilla come le piazze antiche, al di fuori del movimento di passaggio; poi la fabbricazione venga degradando in intensità verso lesterno, adattandosi al terreno, creando armoniche associazioni di masse, ma non seguendo troppo rigidi sistemi; e se mai, le ispirazioni ne siano tipicamente locali, [...] ed in ogni modo la formula del buon senso e del buon gusto dovrebbe essere semplice semplice ma italiano italiano (11).
Ed era infatti questa limmagine più aderente al ruolo
che la città nuova doveva svolgere nellintera bonifica negli intenti degli
organizzatori. Essi erano profondamente convinti infatti che la colonizzazione
stabile sarebbe probabilmente fallita se fosse mancato quel punto di riferimento
urbano. Ai coloni dispersi e confinati nella campagna, costretti alle durissime
fatiche per la sopravvivenza, la città nuova doveva servire proprio a ricordare
che la civiltà nelle forme in cui lavevano lasciata nelle vecchie terre
era presente anche lì vicino a loro, e la civiltà cui facevano riferimento era
inequivocabilmente di matrice urbana. Città era dunque un insieme di istituzioni
entro cui sinquadrava il rurale, ma era, anche, unimmagine. Per
ricostruirla se ne ricercavano i simboli più efficaci estraendoli dalla più
fiorente e significativa stagione urbana, quella della città-Stato comunale:
i suoi indicatori verticali, torri e campanili, emergevano ancora meglio sulla
piatta pianura e sulle basse case. Ricomposti e raggruppati attorno ad uno spazio
centrale, delimitavano un vano raccolto come quello delle piazze antiche, la
cui riscoperta, compiuta dal Sitte alla fine del secolo precedente, era destinata
ad avere larga eco entro un clima di recupero della tradizione italiana.
Il tecnico, assente dalla fase di formulazione teorica e di programmazione,
era chiamato a questo punto a plasmare queste forme, e la competenza che gli
si chiedeva nelloperazione non andava al di là di quella di un architetto
calligrafo. Questo spiega perché, secondo lindice di gradimento dellEnte
costruttore, lincarico per un piano di città nuova aveva potuto essere
affidato anche a Oriolo Frezzotti, architetto diplomato allAccademia di
belle arti, o a Gustavo Pulitzer, raffinato architetto specializzato in arredamento
dinterni.
Quando però i concorsi nazionali chiamavano a confrontarsi su uno stesso progetto
un discreto numero di concorrenti, si poteva allora verificare quanto fossero
incerte e contraddittorie nella cultura contemporanea le tendenze sul modo dintendere
e di fare urbanistica. Per quanto il tema fosse molto modesto e già rigidamente
delimitato, è naturale che nellimpostarlo i tecnici vi riversassero la
loro cultura sul problema città e sul come operare in essa.
Muzio, commentando lesito del concorso per Aprilia (12),
lamentava che di fronte a tale disparità di soluzioni i problemi sembravano
ancor più in alto mare e per compiere un esame critico delle diverse proposte
finiva per suddividerle in gruppi, adottando ancora una volta una chiave di
lettura grafica: piani a schema semplice geometrico, a schema complesso lineare
o radiale, mistilinei.
La distinzione tra forme aperte e chiuse daltra parte era qualcosa che
andava al di là di un puro gusto grafico: nel primo caso vi era riflessa la
concezione di città come corpo accentrato, privilegiato nei confronti del territorio
da cui lo separavano non cinte di mura, ma molto più artificiosamente viali
di circonvallazione o anelli di verde alberato; nel secondo caso la città era
concepita come un organismo dinamico, aperto verso i futuri ampliamenti e quasi
proiettato nel territorio circostante con un rapporto paritetico. Dalle relazioni
allegate ai progetti dei concorsi progetti che sono peraltro quelli ritenuti
degni di qualche premio e quindi conservati negli archivi dellOnc ,
si apprende meglio quali fossero i meccanismi attorno a cui veniva incardinato
il funzionamento della città. Pochi ed elementari erano i problemi, gli stessi
che avevano impegnato gli amministratori delle città nei secoli precedenti:
viabilità ed igiene. Risolti questi, non restava che lapproccio puramente
estetico-architettonico e 1urbanista poteva finalmente ritornare architetto
e cimentarsi, pur nella più stretta economia, nella composizione armonica di
spazi e volumi, ben sapendo che in fondo sarebbero stati proprio i requisiti
estetici a determinare il giudizio della commissione.
Valutandoli così, disegnati sulla carta nella loro piccola dimensione, i progetti
per le città nuove sembrano quasi il frutto di unesercitazione condotta
sulla base di nozioni appena apprese alle lezioni della scuola darchitettura
o tolte di peso dai pochi manuali in circolazione. La letteratura manualistica
si stava diffondendo m Italia appena allora, e della più matura produzione tedesca
ricalcava limpostazione di fondo essenziamente tecnico-pratica (13).
Gli interrogativi sugli obiettivi della disciplina o sulle motivazioni di certe
scelte rimanevano inevasi, soffocati dalla amplissima casistica di esempi contemporanei
ed antichi, destinati a fornire risposte immediate ad ogni problema operativo.
I punti di contatto tra i progetti e la cultura urbanistica dispensata dai manuali
sono evidenziati dalle sottolineature stesse apposte dai tecnici alle relazioni
e alle tavole grafiche. Consideriamo ad esempio il libro di Gustavo Giovannoni
Vecchie città edilizia nuova apparso nel 1931 con stralci di scritti
precedenti dellautore. Strutturato secondo lo schema dei manuali doltralpe,
esso è però inequivocabilmente destinato ad urbanisti italiani e la materia,
anche nelle sue parti più strettamente tecniche, è svolta con un filo conduttore,
che ne costituisce anche il limite: lo spirito di recupero ed esaltazione di
tutta la tradizione nazionale, delle sue espressioni storico-artistiche e la
volontà di polemica contro due culture massificanti per ragioni opposte, lamericana
e la bolscevica.
Tra i molti suoi suggerimenti pratici Giovannoni raccomandava di cercare per
labitato una posizione che fosse elevata altimetricamente, in modo da
sfruttare al massimo i possibili effetti di movimento (14);
ed i progettisti, trovandosi di fronte una pianura, rispondevano di avere utilizzato
anche i minimi movimenti del terreno o di aver collocato il centro nel punto
più alto in modo che la nuova città si profilasse dominante nel paesaggio.
Un corretto orientamento era ritenuto preliminare indispensabile al tracciato
delle strade e dei blocchi edilizi (15).
Era questo un tipo di problematica da tempo sollevata dagli igienisti nordici
per assicurare la massima insolazione alle case e alle zone più interne dellabitato
stesso. Le soluzioni ottimali, già codificate dai manuali, venivano però ridiscusse
dal momento che la regione mediterranea era assai più soleggiata; lattenzione
si spostava soprattutto sui venti dominanti, a cui doveva essere impedito di
penetrare senza alcun ostacolo, dinfilata, attraverso le strade, fin nelle
zone centrali.
Ed ecco che sulle tavole dei piani regolatori campeggiavano bussole a volte
esageratamente grandi e dettagliate con le direzioni dei venti, e nelle relazioni
si parlava diffusamente di quinte edilizie e di sbarramenti opposti alle principali
correnti. Petrucci nel confutare le accuse mosse da Piacentini al suo progetto
per Aprilia gli scriveva:
V.E. ha dimenticato istantaneamente che fino a ieri ha predicato nelle sue lezioni alla scuola di Architettura di evitare le strade Nord-Sud e Est-Ovest.
Oggi la moda doltralpe ritorna sugli schemi a scacchiera con quegli orientamenti. Ciò andrà bene per le regioni settentrionali dove cercano affannosamente il sole, nelle case, con le ampie finestre, nelle strade con la orientazione N.S. o quasi. Ma in Italia, Eccellenza, non si cammina per quelle strade senza correre il rischio di uninsolazione ed infatti V.E. raccomandava qualche anno fa di evitare quellorientamento. Non se ne ricorda più? Ora sono cambiate le condizioni del clima o sono cambiate le sue opinioni? (16)
Ed è sempre a difesa del vento che Libera, incurante del ridicolo,
giustificava la rettangolare cortina di cipressi che chiudeva tutto intorno
lelegantissimo geroglifico che costituiva il suo progetto per Aprilia.
Dopo lorientazione la viabilità. Il principio ormai concordemente accettato
era quello di una opportuna distinzione gerarchica tra diversi tipi di traffico
esterni o interni allabitato e tra diversi assi viari in cui essi venivano
incanalati. Dallesterno la città risultava imbrigliata in larghe maglie
triangolari con gli opportuni svincoli; ed allinterno, secondo lormai
classica soluzione di Sabaudia, la piazza centrale era leggermente defilata
rispetto alle vie di penetrazione in modo da rimanere appartata e tranquilla.
Ma il principio era stato frainteso; piuttosto che creare valide premesse per
un allontanamento del traffico dal centro, se ne ostacolava la penetrazione
torturando il tracciato stradale con incroci a baionetta ed artificiosi percorsi.
Risolti in fretta i problemi più strettamente tecnici, quali lapprovvigionamento
idrico e la fognatura, la più grossa fetta della relazione era destinata a preoccupazioni
estetiche. Nessuno dei dettagli da manuale veniva trascurato. Giovannoni sosteneva
che la via rettilinea doveva essere ravvivata con la visuale monumentale o naturale
del fondo, un grande edificio, un obelisco ovvero un monte o un bosco (17).
E leffetto panoramico era puntualmente ricercato nei pochi punti emergenti
in quella piatta pianura. I monti sullo sfondo erano inquadrati da terrazze
o slarghi panoramici, su cui era disegnato il cono di prospettiva; e la ricerca
dei fondali di visuale al termine delle rettilinee vie di penetrazione era puntualmente
segnalata: ora gli alti edifici delle chiese con i loro campanili svettanti
come obelischi, ora le moli delle torri comunali e littorie ben riconoscibili
fin da lontano come indicatori dellabitato.
Naturalmente, in risposta alle richieste dei bandi, limpegno per creare
un ambiente piacevole da viversi era concentrato nella piazza, la cui soluzione
sembrava monopolizzare in ogni modo la fantasia dei progettisti. La maggior
varietà di disegni dei fabbricati che vi si affacciavano e le relativamente
meno forti restrizioni in fatto di materiali invitavano a tentare un gioco di
composizione, anche se il ventaglio di elementi utilizzabili rimaneva sempre
molto limitato: così in quellunico spazio quasi sempre articolato si contrapponevano
masse e volumi, si accostavano materiali di colori diversi, si sottolineava
la plastica dellarredo architettonico; ed il passaggio porticato diveniva
spesso lelemento chiave per la sua doppia valenza di elemento di chiusura
architettonica, ma di apertura spaziale verso quadri più ampi.
Quanto alle residenze, questo non appare nelle relazioni come un problema fondamentale
o qualificante ai fini del concorso. Ne vengono genericamente indicati i tipi
edilizi (generalmente tre: edifici a filo stradale, case a schiera, case isolate
o binate disposte in gerarchia secondo la loro destinazione sociale) e si rimanda
tutto direttamente alla fase esecutiva.
Questo tipo di zonizzazione, intesa come selezione degli spazi urbani e dei
tipi edilizi, fu invece attuato in forma molto rigida nella città operaia di
Carbonia, città dove lestensione della residenza superava di molto la
parte pubblica della città. Così la coesistenza pacifica delle diverse categorie
sociali era assicurata dalla rigida separazione di zone abitate; ma, in compenso,
proprio perché si trattava di una città dormitorio per gli addetti al primario,
il problema della residenza era stato accuratamente studiato nelle due soluzioni
che successivamente furono adottate; estensiva prima, intensiva poi, quando
limmigrazione massiccia minacciava di far dilatare troppo labitato.
Vale la pena di segnalare infine come la zonizzazione, intesa come suddivisione
dello spazio urbano in aree destinate a funzioni diverse, compaia quasi in caricatura
in uno schema riguardante Pontinia: nel quadrato della maglia di bonifica attorno
ai piatti segni degli edifici centrali vennero segnate in punti opposti le indicazioni
di «zona dei villini» e «zona industriale».
Mentre la maggior parte dei progetti erano stati stesi in adesione totale alle
richieste della committenza, da parte di alcuni, fosse disattenzione o polemica,
o disprezzo per gli orientamenti espressi nei bandi, erano state formulate proposte
ispirate a modelli di ben diversa estrazione. I loro limiti e linadeguatezza
delle soluzioni prospettate di fronte al problema reale erano forse anche più
forti: ora la funzionalità era sacrificata ad un calligrafismo esasperato, ad
un rigorismo geometrico che rivelava come il piano prima di tutto rimanesse
un oggetto destinato alla pura contemplazione formale; ora si trasferivano alle
borgate rurali schemi adatti piuttosto allampliamento di un quartiere
urbano.
Ma oltre il sospetto, molto incriminante in quegli anni, di essere tributari
a culture straniere, era proprio laver eluso le regole del gioco che escludeva
immediatamente quei progetti dalla valutazione delle commissioni.
Questa mancanza di contatto con la committenza si verificò in modo ancora più
netto nellepisodio del progetto per Pontinia firmato da Le Corbusier.
La vicenda si inserisce da un lato nella storia dei rapporti spesso a senso
unico, tra Le Corbusier e committenza, dallaltro in quella dei rapporti
tra Le Corbusier e la progettazione.
Pontinia e lAgro come luogo di attuazione sono due variabili del tutto
marginali rispetto al progetto stesso. Labbozzo relativo a Pontinia non
era infatti assolutamente originale, ma derivava da un altro precedentemente
studiato per la regione agricola della Sarthe.
Durante il suo soggiorno romano, larchitetto aveva visitato la zona bonificata
dove le prime due città erano ormai compiute. Loperazione gli era parsa
di così vasta scala da ritenerla adeguata ad un proprio intervento.
Era questo il terzo spazio che individuava in Italia: dopo Marghera, città industriale,
e Roma, la capitale, Pontinia rappresentava il modello di ricostruzione della
campagna.
Da quel momento iniziava la ricerca di contatti con lautorità, gestita
dallamico italiano Fiorini; e lautorità non si identificava solamente
in Mussolini, ma m qualche influente tramite nelle alte gerarchie individuato
dapprima nella persona di Bottai, poi con molto maggiore scetticismo in quella
di Ciano. Il colpo docchio aveva suggerito le prime impressioni negative
sulla bonifica annotate sul taccuino e ripetute in forma più organica in Prélude
(18). Di Littoria pensava
tutto il male possibile: «confusion», «laideur», «échec
urbanistique» erano le prime parole che appuntava a proposito; quanto
alla «razionale» Sabaudia, le sue riserve sotto un certo profilo
erano ancora più forti: villaggio gradevole e in parte riuscito, ma sogno romantico,
rivisitazione di una poeticità agreste ormai fuori tempo. Ma soprattutto riteneva
dannoso lo sviluppo previsto dal piano, con linvasione di basse casette
che avrebbero finito per saccheggiare irrimediabilmente il paesaggio. Quello
che locchio vedeva e quello che avrebbe voluto vedere erano due realtà
urbanistiche contrapposte quasi specularmente. Fondazioni, tetti, strade, ingressi,
abitazioni, tutto ridotto dalla moltitudine allunità.
Al di fuori del volume occupato dallunità di abitazione, il paesaggio
sarebbe rimasto intatto; e quella libertà che locchio aveva nello spaziare
sullorizzonte tra montagna, pianura e mare si sarebbe tradotta allinterno
con la centralizzazione degli impianti in libertà dai servizi più pesanti, dal
caldo e dal freddo, dalle mosche e zanzare delle paludi.
Punto immediatamente qualificante dellintero progetto era proprio la soluzione
del problema residenza; e già in questo la distanza dalle richieste della committenza
era incolmabile.
Gli edifici pubblici, precisi come funzioni, avrebbero forse potuto essere pensati
per le esigenze della burocrazia e del partito fascista e perfino utilizzati
per effetti scenografici.
Di due punti centrali alloperazione fascista delle città di bonifica Le
Corbusier dimostrava di aver recepito pienamente limportanza: la rapidità
e il costo.
Su questi, poteva dichiarare la sua proposta nettamente vincente, valutando
un risparmio da tre a quattro volte, un tempo di costruzione di 50 giorni contro
i 265 di Sabaudia.
Ma la condizione indispensabile era che i nuovi centri rurali venissero inseriti
nellingranaggio della grande industria del Nord: la città razionalmente
smontata dal progettista in blocchi di serie da affidare alla produzione industriale
sarebbe poi stata montata direttamente sul luogo. Come al solito, nel subordinare
lautorità al progetto, Le Corbusier aveva imboccato un vicolo cieco.
La bonifica dellAgro ed il recupero di terreni non erano parte di un puro
e semplice programma di rinnovamento agricolo. La politica della deurbanizzazione
cui erano collegati e la scelta della mezzadria come patto agrario bastano già
a rivelare lideologia che vi era sottintesa e che stava elaborando in
quegli anni la propria immagine architettonica e urbanistica.
Lavrebbe trovata, come si è visto, nella dimensione individuata da «Strapaese»,
facendo «rivivere la grande tradizione italiana attraverso il filtro quotidiano,
ma non meschino della propria terra» (19).
Ogni singolo capitolo allintemo di questa vicenda di fondazione è creato
in questa scala ridotta, in questa misura modesta.
Ai contemporanei mancò la necessaria maturazione culturale per aprire un vero
dibattito sul tema; ma lo stesso dibattito nel dopoguerra fu di fatto molto
ritardato dalla mancanza dinteresse per quella modestia, apparentemente
così poco qualificante, e dal fatto che non vi si poteva riconoscere né
razionalismo né monumentalismo; poli antitetici in cui era dobbligo
inquadrare lespressione urbanistico-architettonica del regime.
La ricerca di radici allinterno del regime da parte di una cultura che
ostentava un retorico antifascismo portava ad unoperazione molto miope,
al recupero delle minoranze emarginate e sconfitte e ad una loro rilettura in
chiave antifascista.
Questo contribuì a prolungare per molto lequivoco in cui quelle si erano
mosse. Razionalismo e monumentalismo diventarono due ideologie di opposto segno
politico; del primo si accettavano le opere, la letteratura, linformazione.
Secondo i razionalisti la vicenda delle città nuove si ferma con Sabaudia, al
momento della loro maggior fortuna che proprio allora, dopo aver toccato lapice,
inizierà la sua parabola discendente. Sabaudia rimase un nome, un simbolo di
una battaglia che poi fu persa.
Eppure, a ben vedere, a parte lorganicità con cui il piano era stato steso,
il progetto stesso non era esente da quei vizi di retorica ed in parte di monumentalismo
che sulla piatta bidimensionalità della carta quasi scompaiono.
Lenfasi del complesso religioso, la dilatazione della piazza delle adunate,
lelevazione della torre: sono tutti elementi che denotano, in piena adesione
alle richieste della committenza, un gigantismo della parte pubblica della città
rispetto a quella privata.
Ma, filtrata dalla valutazione dei razionalisti, la vicenda rimase ancorata
entro quei confini; e questo spiega come sia possibile che ancora nel 1964 il
manuale del Benevolo fornisse sullargomento questo giudizio critico: «I
razionalisti tracciarono il piano di Sabaudia interrompendo la serie delle monumentali
città di bonifica» (20).
Non poteva trattarsi di serie perché Sabaudia era la seconda città, se si esclude
il piccolo nucleo, ancora in gestazione, di Mussolinia. Littoria era dunque
lunico precedente ed il suo monumentalismo poteva essere giudicato tale
soltanto quando la piatta frontalità degli edifici pubblici venne a delimitare
la piazza disegnata nel deserto senza alcun coordinamento di piano. Dato lo
sviluppo della città, essi risultarono poi pienamente dimensionati alle funzioni
che dovevano svolgere.
Tra quei due poli opposti, razionalismo e monumentalismo, esiste anche questa
componente strapaesana che non può essere ignorata né sottovalutata.
E se le città nuove ne rappresentarono il campo di piena e completa affermazione,
la sua presenza è evidentissima in tutti i centri urbani, nei medio-piccoli
più che nei grandi, in quella serie di interventi condotti in sordina, m tono
minore, che con la costanza e la facilità di diffusione dei loro moduli espressivi
formano, prima di ogni grande opera monumentale o davanguardia, i caratteri
distintivi dellimmagine urbana del fascismo.
Note
(1) Per un esame più analitico di tutte
le vicende che accompagnarono la fondazione delle città nuove e per i dati relativi
alle città e la bibliografia generale sui problemi trattati rimando a quanto
ho precedentemente scritto: Le città di strapaese, Franco Angeli, Milano
1981; Le città nuove del ventennio: da Mussolinia a Carbonia in Le
città di fondazione, Marsilio-Ciscu, Venezia 1978; Le città dellautarchia
in La Rivista, 1978, n. 2-3; Città nuove in Sardegna durante
il periodo fascista, in Storia urbana, 1978, n. 6 (in
collaborazione con R. Martinelli).Su
(2) Lettera a Carlo Lodovico Ragghianti edita in G.
Pagano, Architettura e città durante il fascismo, a cura di Cesare de
Seta, Laterza, Bari 1976.Su
(3) II primo in Architettura nazionale,
in Casabella, 1935, n. 85, pp. 2-7; il secondo in Potremo
salvarci dalle false tradizioni e dalle ossessioni monumentali, in Costruzioni-Casabella,
1941, n. 157, p. 2.Su
(4) Archivio centrale dello Stato, Segreteria
particolare del duce, Autografi 7.10.D.Su
(5) L. Piccinato, Il significato urbanistico
di Sabaudia, in Urbanistica, 1934, n. 1, pp. 10-24.Su
(6) G. Ciocca, E. Rogers, La città corporativa,
1934, n. 10, p. 25; G. Ciocca, Per la città corporativa, 1934, n. 11,
pp. 10-13: G.L. Banfi, L.B. di Belgioioso, Urbanistica anno XII. La città
corporativa, 1934, n. 13, pp. 1-2; L.B. di Belgioioso, G.L. Banfi, Urbanistica
corporativa, 1934, n. 16-17, p. 40; E. Peressutti, Urbanistica corporativa,
piani regolatori, 1934, n. 20, pp. 1-2; Corsivo n. 169, 1935, n.
23, p. 44; G.L. Banfi, L.B. di Belgioioso, E. Peressutti, E. Rogers, Urbanistica
corporativa, 1935, n. 23, p. 20.Su
(7) E. Persico, Punto ed a capo per larchitettura,
in Domus, 1934.Su
(8) M. Piacentini, Aprilia, in Architettura,
1936, n. 5, pp. 193-212.Su
(9) Opera nazionale combattenti, Archivio storico,
Verbale della riunione del 19 novembre 1935, Comune di Aprilia, 2 giugno 1922.Su
(10) G. Pagano, Architettura rurale in
Italia, in Casabella, 1935, n. 96.Su
(11) G. Giovannoni, Lurbanistica
e la deurbanizzazione, Roma 1936, pp. 17-18.Su
(12) G. Muzio, Concorso per il piano regolatore
dAprilia, in Rassegna darchitettura, 1936,
n. 14-15, pp. 206-15.Su
(13) Vedi sullargomento G. Piccinato,
La costruzione dellUrbanistica, Officina, Roma 1974.Su
(14) G. Giovannoni, Vecchie città edilizia
nuova, Utet, Torino 1931, p. 74.Su
(15) Ivi, p. 74.Su
(16) Opera nazionale combattenti, Archivio
storico, Comune di Aprilia, 2 giugno 1922.Su
(17) G. Giovannoni, Vecchie città...,
cit., p. 124.Su
(18) Gli schizzi sono pubblicati e commentati
da G. Ciucci, A Roma con Bottai, in Rassegna, 1981,
n. 3, pp. 66-71. I commenti di Le Corbusier furono espressi in Prélude,
1934, n. 14, e successivamente riportati anche in La ville radieuse,
Parigi 1964, p. 329.Su
(19) Cfr. L. Mangoni, Linterventismo
nella cultura, Laterza, Bari 1974, p. 137.Su
(20) L. Benevolo, Storia dellarchitettura
moderna, Laterza, Bari 1964, voi. II, p. 760.Su
Da: Bollettino del Dipartimento di urbanistica, Iuav, 1986, n. 4, pp.147-165.
Illustrazioni (le foto sono dellAutrice, Dipartimento di Storia delle Arti-Università degli Studi di Pisa). Su
Piano regolatore della Città di
Carbonia. Schema di regolamento edilizio
Piano regolatore della Città di
Carbonia. Zonizzazione
Carbonia, progetto del «posto
di soggiorno e ristoro»
Studio G. Pagano, planimetria di Portoscuso
Nuova
Littoria, Palazzo delle Poste, edifici
in costruzione
S. Muratori, progetto per Costoghiana,
particolare del plastico
Costruzione «rurale» dellAgro
Littoria, Casa del Combattente in
costruzione
Aprilia, progetto esecutivo, orientamento
rispetto ai principali venti dominanti (architetti C. Petrucci e M. Tufaroli
e ingegneri F. Paolini e R. Silenzi)
Torviscosa, torre del Palazzo Comunale