"METODO", N. 24/2008

Rita Di Leo
OPERAI E PCI. STORIA DI UN RAPPORTO DIFFICILE

Un illuminante articolo scritto quarantatré anni fa dal mensile «Classe operaia» diretto da Mario Tronti
S’intravvede la deriva del PCI verso PDS, DS e PD

Mario Tronti (Roma, 1931) è un filosofo e politico italiano, considerato uno dei principali fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta. Militante del Partito Comunista Italiano durante gli anni Cinquanta, fu con il socialista Raniero Panzieri (1921-64) tra i fondatori della rivista «Quaderni rossi», da cui si separò nel 1963 per fondare la rivista «Classe operaia», della quale fu il direttore. Questo percorso lo portò ad allontanarsi dal Pci, pur senza mai uscirne formalmente, e ad animare l’esperienza radicale dell’operaismo. Tale esperienza, che va considerata per molti versi la matrice della nuova sinistra degli anni Sessanta, si caratterizzava per il fatto di mettere in discussione le tradizionali organizzazioni del movimento operaio (partito e sindacato) e di collegarsi direttamente, senza intermediazioni, alla classe in sé e alle lotte di fabbrica. Negli ultimi anni, non avendo condiviso le trasformazioni post-comuniste del partito e dopo aver lasciato la docenza universitaria, la sua riflessione filosofica ha assunto toni pessimistici, concentrandosi sulla fine della politica moderna e sulla critica della democrazia.
Il mensile
«Classe operaia» nacque nel 1964. Il primo numero uscì nel Gennaio, l’ultimo nel Marzo 1967. Essa sarà la rivista di Potere Operaio, il gruppo della sinistra extraparlamentare che si pose su un terreno di rottura con la tradizione del movimento operaio. E che traeva la sua ispirazione dall’operaismo di Tronti e dalle analisi sulla trasformazione dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche del suddetto Panzieri.
Sul N. 3 del Maggio 1965, leggiamo che, oltre al direttore Mario Tronti, il responsabile era Francesco Tolin. La direzione era a Roma, salita di S. Onofrio 21. La redazione era composta da Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Gaspare De Caro, Rita Di Leo, Claudio Greppi, Toni Negri. Ulteriori collaboratori del numero: Luciano Arrighetti, Giuliano Artioli, Sergio Bologna, Mauro Gobbini, Mario Mariotti, Manfredo Massironi e Teresa Rossi.
L’articolo Operai e Pci. Storia di un rapporto difficile, a firma r.d.l., è a pp. 27-30.

 

Una lotta politica direttamente operaia è stata esplicitamente rifiutata dal PCI sin dal primo momento, sin dalle prime mosse sulla scena politica dell’Italia del ’44. Togliatti motiverà il rifiuto al VII congresso del partito, affermando che la dittatura del proletarîato «non si adattava al desiderîo di larga unità nazionale esistente in tutti gli strati sociali».
Venne così elaborato un programma, che ha una somiglianza stupefacente con quello della destra del partito russo del 1905. Lenin giudicava la situazione politica, maturata in seguito alle lotte operaie e alle rivolte contadine, come favorevole ad un rafforzamento del capitalismo avanzato. Il proletariato, non potendo passare immediatamente alla battaglia decisiva contro i padroni, doveva proporsi la crescita della lotta di classe. La partecipazione del partito operaio ad un governo, imposto dalla rivoluzione democratica, aveva questo obiettivo. Allo stesso tempo gli operai dovevano essere armati e organîzzati, pronti a sconfiggere dal basso qualsiasi tentativo controrivoluzionario. La destra del partito spacciava, invece, come vittoria decisiva sullo zarismo l’aborto costituzionale con cui minacciava finire la rivoluzione e poneva come compito fondamentale del proletariato la collaborazione con le forze progressive per una trasformazione democratica della società.
Anche per i dirigenti del PCI, quarant’anni pîù tardi, non vi sono dubbi: il paese – dopo la liberazione dal fascismo – deve essere indirizzato verso la democrazia politica. Il disegno, che va dal Piano del lavoro alla politica delle alleanze, dalla Costituzione repubblicana ai Consigli di gestione, comprende anche la lotta di classe. La pressione operaia deve agire come minaccia contro gli egoismi ed i capricci degli imprenditori e le incertezze dei politici borghesi, all’interno di un complesso meccanismo di potere che assegna alla classe operaia, attraverso il suo partito, una funzione di guida della società. In questo contesto trova la sua ragion d’essere la coesistenza tra lo spontaneismo operaio nelle lotte e le profferte di collaborazione del gruppo dirigente verso governi, preti e padroni in nome della Patria e della Costituzione.
Realizzare una società economicamente e politicamente stabile, con la collaborazione attiva della classe operaia è il legittimo sogno di politici borghesi intelligenti; se tale sogno rappresenta il programma massimo di un partito comunista, forte di un milione di operai, diviene inevitabile lo scontro fra strategia riformista e tattica rivoluzionaria. Per tanti anni si è alluso alla doppiezza dei dirigenti del PCI, i quali avrebbero finto di voler collaborare mentre in realtà tramavano piani sovversivi, ma un esame anche superficiale della politica del partito convince della loro linearità: convinti nemici della scelta rivoluzionaria ieri con l’iniziativa del Piano del lavoro, convinti avversari dei monopoli oggi con la proposta di una programmazione «democratica». Non di doppiezza si deve tacciare la politica del PCI ma di utopia. Usare Lenin per maturare il nostro provinciale capitalismo, usare gli operai per istruire i padroni è una formula la cui riuscita dipende dall’adesione dei protagonisti. L’adesione dei capitalisti non è mai stata conquistata.
L’adesione operaia degli anni 45-49 dipese dal fatto che la prospettiva politica trentennale del PCI, venne scambiata come tattica momentanea, necessaria perché gli avversari di classe non scoprissero le vere intenzioni operaie. Il mandato fiduciario di cui godeva il partito, in quegli anni, appariva illimitato, in realtà il terreno politico formale sul quale partiti di destra e di sinistra stavano combattendo le prime battaglie «democratiche», impegnava solo in modo generico la massa sociale operaia. Per gli operai il vero terreno di scontro era la fabbrica. Nelle fabbriche, dal ’45 al ’47, gli operai si comportavano come fossero sul punto di prendere il potere e anzi di essersene già impadroniti, per mezzo degli strumenti e delle iniziative dei PCI.
L’equivoco era tale che si accettò la tregua salariale, firmata dalla CGIL, e si vide nel Piano del lavoro un primo abbozzo di programma socialista. Allo stesso tempo la partecipazione ai Consigli di gestione era considerata come l’ipoteca operaia sull’uso dei mezzi di produzione, fino al ’46 in mano ai CLN. Il Comitato di fabbrica, la Commissione interna e la cellula erano le leve per l’esercizio del potere operaio nella singola fabbrica. Gli operai si iscrivevano al sindacato di malavoglia, come un favore personale da fare al segretario della cellula; per la classe la vita sindacale aveva lo stesso valore che la passione per la Costituzione e le altre istituzioni democratiche e borghesi, per lodare le quali stampa e alti funzionari di partito sprecavano tante parole. Nella fabbrica per queste passioni non c’è posto, nella fabbrica si discute col padrone dell’organizzazione del lavoro e gli si impone il proprio punto di vista, si cacciano i capisquadra fascisti, si esaltano la grandezza del compagno Stalin e il paradiso sovietico. Nella fabbrica si attende. Gli operai non hanno dubbi sul programma del partito perché è il partito comunista, perché si ispira all’Unione Sovietica e soprattutto perché ciascun operaio constata nella propria fabbrica che gli operai sono il partito. E il potere operaio viene affermato ed esercitato proprio imponendo al padrone le iniziative del PCI. Ma accanto alle iniziative dall’alto v’erano quelle che spontaneamente e quotidianamente gli operai, guidati dai quadri comunisti, portavano avanti affinché la lotta politica di classe non subisse pause. Purtroppo la lotta di classe durava otto ore al giorno, giacché fuori dalla fabbrica, l’azione del partito tendeva oggettivamente ad isterilire la tensione operaia. L’accordo ai vertici per una tregua salariale e per far uscire dalle tasche degli operai i soldi per ricostruire le fabbriche, cozzava con la quotidiana prova di forza tra i singoli padroni e la massa operaia.
La tattica rivoluzionaria del partito portava al rafforzamento del potere operaio nella fabbrica, la strategia riformista indeboliva la posizione della classe operaia nella società.
Se padroni e operai avessero fatto scoppiare la contraddizione tra tattica e strategia, la lotta di classe avrebbe oltrepassato i limiti imposti da una realtà politica così equivoca. E invece i padroni cacciarono i ministri comunisti dal governo «interclassista» e gli operai aderirono alla prima esperienza elettorale. La delusione del 18 aprile ebbe per gli operai il significato di una riscoperta della propria situazione di minoranza rivoluzionaria, all’interno di un sistema capitalistico. L’adesione alla messinscena democratica del voto per la scalata parlamentare al potere si rovesciò in una crescita della pressione sul partito, di cui si esaltava la guida per la rivoluzione «vera». E ogni occasione per combattere veniva raccolta ed anche provocata. L’azione di massa, aperta, violenta (tipo i fatti del MSI a Torino) appariva l’unico metodo per cacciare i padroni. In attesa dello scontro decisivo che ormai non poteva tardare gli operai accettarono ed imposero una disciplina ed una organizzazione del partito, riconosciute come indispensabili ad un esercito in lotta. In realtà, la stalinizzazione del partito, nelle prospettive controrivoluzionarie del gruppo dirigente, aveva una funzione di controllo dello spontaneismo operaio. Lo scontro tra le due diverse, opposte funzioni del partito scoppierà, come è noto, in occasione dell’attentato a Togliatti.
Il contraccolpo positivo delle sconfitte operaie del 18 aprile e del 14 luglio venne registrato immediatamente dal padronato, che si diede a preparare la controffensiva. La rimonta del potere padronale avvenne su due fronti, quello della riorganizzazione del rapporto di lavoro e quello della spoliticizzazione della vita di fabbrica.
La crisi di crescenza, attraversata dal capitalismo italiano dal ’49 al ’53, produsse varie trasformazioni nel mercato del lavoro. Da un lato la smobilitazione di tante fabbriche, nate intorno all’industria bellica, creava plaghe di disoccupazione nei vecchi centri industriali, dall’altro gli investimenti del Piano ERP [Piano Marshall] permettevano un salto tecnologico nei settori industriali più attivi. Il nuovo processo di produzione, sconvolgendo il tradizionale rapporto uomo macchina, indebolì la organizzazione spontanea del collettivo operaio. Si rese difficile ai quadri comunisti di lasciare il posto di lavoro, per correre in un altro reparto dove urgeva organizzare la protesta contro un capo o contro un ordine della direzione. Intanto il salto tecnologico non poteva venir realizzato da organismi «interclassisti» accettati dagli operai soltanto se riducevano i tempi di lavoro. I Consigli di gestione entrarono in crisi. Gli operai si resero conto che la collaborazione col padrone nei Consigli equivaleva ormai all’accettazione di più raffinati piani di sfruttamento e al padrone riuscì facile dapprima chiudere le sedi e requisire i registri e poi mettere fine del tutto all’esperienza. Da quel momento la collaborazione del PCI all’espansione capitalistica uscì dalla fabbrica. La fine dei Consigli di Gestione si ricollega alla riconquista padronale di una piena direzione dello sviluppo economico, che dà inizio ad una nuova fase della battaglia operaia contro la classe dei capitalisti.
Scoppiarono aspre lotte di fabbrica, di categoria, di settore contro il singolo padrone, contro l’associazione padronale; il terreno di scontro era la difesa dell’uso e del prezzo della forza lavoro; gli strumenti di lotta andavano dallo sciopero alla «non collaborazione» organizzata all’interno del luogo di produzione. Intanto era ancora in vigore il contratto di lavoro fascista. Chi aveva pensato negli anni caldi a stipulare accordi con coloro che si era per distruggere definitivamente? Ma adesso saranno proprio gli operai comunisti a prendere l’iniziativa delle lotte sindacali, ad organizzarle, a spingere gli operai agli scioperi per la paga, per l’orario, per i cottimi. Gli strumenti del partito in fabbrica, dalla cellula al Comitato della pace, diventarono gli strumenti delle lotte, che il partito stesso era costretto ad organizzare e dirigere sotto la pressione e l’impegno dei quadri operai.
Nel ’45 il partito era considerato l’arma di offesa di tutta la classe per combattere il sistema, negli anni tra il ’49 e il ’53 [morte di Stalin: 5 marzo] divenne la guida per difendersi dalla controffensiva padronale. Nel clima di disoccupazione, di fame, di occupazione delle terre, di grandi incertezze politiche, gli operai occupati nelle grandi fabbriche del Nord, rinsaldano i legami col PCI e lo usano. Furono gli anni in cui salì il numero delle cellule, delle sezioni , degli iscritti operai, in cui la contraddizione tra l’uso operaio del PCI e le iniziative riformiste a livello politico formale raggiunge l’assurdo. Si pensi alla proposta comunista di abbandonare qualsiasi tipo di opposizione in cambio di un governo di pace, fatta in un periodo in cui alla prima notizia di smobilitazione di una fabbrica, gli operai l’occupavano con un comportamento da padroni. E l’azione veniva organizzata e diretta dalla federazione locale del PCI, inevitabilmente condizionata dalla pressione operaia. Il gruppo dirigente del partito tentò una via di uscita da una realtà politica così imbarazzante, decidendo di organizzare il sindacato in fabbrica.
Si spinsero gli operai comunisti, i quadri del partito nella fabbrica, i capi effettivi della vita politica e sindacale, ad abdicare alla funzione, spontaneamente loro affidata dal collettivo operaio, per dedicarsi ai compiti stabiliti dal partito. Le lotte operaie dovevano rimanere di esclusiva competenza della Commissione Interna e dei funzionari sindacali. In realtà il sindacato continuerà ancora per qualche tempo ad essere usato come cinghia di trasmissione, ma intanto si era scoperto il fianco all’attacco padronale.
Con enorme sforzo, fabbrica per fabbrica a secondo dei rapporti di forza, il padronato cominciò a vietare la diffusione della stampa di partito, a proibire i comizi, a limitare le prerogative della Commissione interna. Gli operai erano sempre liberi, secondo la prassi democratica, di iscriversi ai sindacati e di lottare per il rispetto del contratto ed anche di scioperare, purché le motivazioni dello sciopero fossero strettamente conseguenti all’azione sindacale.
La classe rispose all’attacco aderendo a qualsiasi occasione di sciopero «politico» da quello per l’eccidio di Melissa [24 ottobre 1949, allora in provincia di Catanzaro, oggi Crotone; ndr] a quello contro il generale «peste» [soprannome del Gen. Matthew Bunker Ridgway, comandante della NATO che arrivò in Italia il 17 giugno 1952; ndr]. Vennero sferrate allo stesso tempo le prime grandi battaglie sindacali del dopoguerra.
Protagonisti e capi degli scioperi «politici» e delle lotte sindacali continuavano ancora ad essere i quadri comunisti, i segretari di cellula, i funzionari di base. E contro di essi, contro i nemici della quiete produttiva dell’azienda si scatenerà il padronato.
Studiata la rete organizzativa, in grado, attraverso i suoi strumenti ed i quadri, di raggiungere e collegare l’intera organico operaio della fabbrica, si prese a distruggerla con ogni mezzo.
L’epurazione durò qualche anno: gli operai protestavano e scioperavano anche quando il segretario di cellula, operaio di prima categoria, dopo aver per mesi scopato i gabinetti e spalato neve, era alla fine con qualche pretesto cacciato. Occorse istituire un corpo di sorveglianti, ex carabinieri o celerini; far agire una specie di tribunale speciale che interrogasse l’operaio sui suoi legami col partito; dare premi speciali antisciopero e così via. Soprattutto si dovettero licenziare centinaia e centinaia di attivisti comunisti per spezzare i legami tra l’organizzazione del partito nella fabbrica e la massa operaia. La tragedia che in quegli anni vissero i quadri comunisti aveva due aspetti, la perdita del posto e quindi anche della possibilità di combattere il padrone in una grande fabbrica, e la crescita dei dubbi sulla politica del partito.
Nel ’51 si tenne il terzo congresso del partito dopo la fine del fascismo [VII dalla fondazione: Roma, 3-8 aprile; ndr]. Nelle fabbriche il potere padronale stava riprendendo l’antica protervia e gli operai denunziarono la situazione. Viva era l’esigenza di una risposta operaia, chiara ed inequivocabile ed organizzata, all’offensiva della classe capitalistica. Di tale esigenza non c’è quasi traccia nei resoconti del congresso; per il gruppo dirigente del PCI quel che stava avvenendo nelle fabbriche rappresentava in fondo un episodio marginale di lotta di classe, da sacrificare allo scontro tra Stalin e il capitalismo occidentale. Come rimedio agli squilibri della società italiana vennero del resto elaborate molte proposte, nelle quali doveva consistere la «politica operaia» di un partito che agli interessi specifici della classe anteponeva le esigenze nazionali-popolari di uno Stato capitalista in fase di maturazione.
La politica operaia di un partito operaio equivale all’organizzazione del processo rivoluzionario. Ma in una prospettiva socialdemocratica, compito del partito diventa la difesa della dignità del cittadino-lavoratore. E infatti l’iniziativa, che venne presa in risposta al «fascismo» reintrodotto in fabbrica, fu l’appoggio alla proposta ACLI perché una commissione di inchiesta parlamentare svolgesse una regolare inchiesta sui luoghi di lavoro. Perché l’iter costituzional-democratico della proposta si concretizzasse in un gruppetto di affabili signori in giro per le fabbriche a far domande difficili agli operai, passarono cinque anni. Furono gli anni in cui un uso operaio del partito comunista risultò difficile, non tanto per l’offensiva padronale, quanto per la politica del gruppo dirigente sempre più conseguentemente tesa ad evitare qualsiasi possibilità di scontro generale.
L’impossibilità di usare il partito in senso rivoluzionario porterà al distacco sempre più pesante tra la massa operaia e il PCI. Il calo negli iscritti, nelle presenze attive nelle cellule, nelle sezioni, nelle attività di partito, realizzatosi vertiginosamente in pochi anni, riportò la «questione operaia» all’attenzione del gruppo dirigente. Perdere gli operai significava la fine del disegno togliattiano di una società interclassista, governata dalla classe operaia, tramite il suo partito. La paura di perdere la base operaia diventò maggiore di quella d’essere accusati dai colleghi in Parlamento, di trame antidemocratiche.
Si riscoprì in biblioteca la parola socialismo e la si promise agli iscritti e al paese come una specie di premio, dopo la conquista graduale e democratica di una serie dì riforme. In occasione dell’ottavo congresso [dalla fondazione: Roma, 8-14 dicembre 1956, ndr] si definì tale prospettiva «via italiana a socialismo»... La risposta operaia ad essa fu il rifiuto del PCI. A migliaia i quadri se ne andarono, sostituiti solo parzialmente da bottegai, contadini, artigiani. Il partito si offriva ormai apertamente come il difensore della piccola gente contro l’egoismo dei potenti. I suoi programmi per un rinnovamento graduale della società, le parole d’ordine contro i monopoli, le speculazioni, il costo della vita non lasciano indifferenti nemmeno l’operaio singolo, il quale per l’appunto continua a dare il voto al PCI, come al partito meno compromesso con i padroni.
E intanto la massa operaia si trova ad agire, senza la guida di un partito rivoluzionario. Il vuoto, più che dalla massa, è avvertito dai quadri comunisti, che sono ormai un terzo in meno di quanti erano dieci anni prima; e coloro che se ne sono andati non sono stati sostituiti da giovani. Il rapporto tra quadri e partito è un seguito di rotture e di tensioni.
È in un tale vuoto che nasce l’uso operaio dei sindacato degli anni ’60-’63. Da parte dei quadri e degli operai comunisti la tendenza a rendere l’iscrizione alla CGIL una scelta politica era sorta sin dal momento in cui PCI e padroni avevano decretato la fine dell’attività del partito all’interno del luogo di produzione. I segretari di cellula erano diventati membri di Commissione interna e da tale sede continuavano ad organizzare e a premere sul collettivo operaio.
Il sindacato di «classe» dové molto penare per convincere padroni ed operai che la CGIL era un sindacato costituzional-democratico come gli altri. I padroni per convincersene avevano bisogno che gli operai se ne convincessero.
Gli operai risposero, imparando in pochi anni, ad usare organizzazione e strumenti di qualsiasi sindacato agisse meglio per i loro interessi immediati. Usavano la CGIL ma anche i sindacati aziendali se attraverso di essi risultava più facile alzare il prezzo della loro prestazione. Abbandonano la CGIL quando il legame col sindacato di «classe» complica la lotta con il padrone.
Le vittorie sindacali di questi ultimi anni si impongono all’attenta analisi di capitalisti e politici per il grado di partecipazione con il quale la massa operaia si impegna nella battaglia per l’orario o per il cottimo. Il livello della lotta denuncia sì arretramenti nella coscienza politica collettiva, ma rivela anche quanto la classe sia non disponibile per la prospettiva socialdemocratica che partito e capitale ciascuno per proprio conto, intendono offrirle.
La tensione anticapitalistica operaia rimane il maggior ostacolo alla stabilizzazione del sistema a livello di capitale sociale. Diventa sempre più urgente strappare agli operai qualsiasi strumento ed occasione oggettiva che consenta loro di contrapporsi come classe antagonista.
Nella piattaforma socialdemocratica dei capitalisti viene inserito un uso diretto dei sindacato e dei partiti. Il sindacato collegherà la sua funzione di difesa della forza-lavoro a quella di strumento equilibratore dello sviluppo sociopolitico del sistema. Il partito dovrebbe diventare – attraverso l’esercizio della sovranità popolare – il punto di incontro degli interessi del popolo lavoratore e delle esigenze del capitale.
Nel quadro della programmazione – e della conseguente riforma statuale della società civile – si prevede di eliminare qualsiasi possibilità di espressione autonoma per la classe operaia. A questo disegno partecipano CGIL e PCI, ciascuno di essi chiedendo qualche riforma in più, in cambio di un controllo assicurato della massa operaia.
Il sogno socialdemocratico dei padroni e del movimento operaio ufficiale va distrutto. La classe operaia è oggi in grado, di assumere l’iniziativa di una lotta direttamente politica all’interno del luogo di produzione, giacché lotta politica può oggi equivalere anche ad una semplice lotta salariale organizzata [grassetto nel testo; ndr].
È in una tale reale prospettiva di battaglie contro il sistema che si inserisce l’esigenza dell’organizzazione di fabbrica del partito. Riportare il partito in fabbrica su iniziativa operaia [grassetto nel testo; ndr], significa oggi mettere in crisi il meccanismo di sviluppo capitalistico.
Lo scontro tra strategia riformista e tattica rivoluzionaria del PCI sarà questa volta provocato e vinto dai quadri operai.

r.d.l.