Rita Di Leo
OPERAI E PCI. STORIA DI UN
RAPPORTO DIFFICILE
Un illuminante articolo scritto quarantatré anni fa dal mensile
«Classe operaia» diretto da
Mario Tronti
S’intravvede la deriva del PCI verso PDS, DS e PD
Mario Tronti (Roma, 1931) è un filosofo e politico italiano, considerato uno dei
principali fondatori dell’operaismo teorico degli anni Sessanta. Militante del
Partito Comunista Italiano durante gli anni Cinquanta, fu con il socialista
Raniero Panzieri (1921-64) tra i fondatori della rivista «Quaderni rossi»,
da cui si separò nel 1963 per fondare la rivista «Classe operaia», della
quale fu il direttore. Questo percorso lo portò ad allontanarsi dal Pci, pur
senza mai uscirne formalmente, e ad animare l’esperienza radicale
dell’operaismo. Tale esperienza, che va considerata per molti versi la matrice
della nuova sinistra degli anni Sessanta, si caratterizzava per il fatto di
mettere in discussione le tradizionali organizzazioni del movimento operaio
(partito e sindacato) e di collegarsi direttamente, senza intermediazioni, alla
classe in sé e alle lotte di fabbrica. Negli ultimi anni, non avendo condiviso
le trasformazioni post-comuniste del partito e dopo aver lasciato la docenza
universitaria, la sua riflessione filosofica ha assunto toni pessimistici,
concentrandosi sulla fine della politica moderna e sulla critica della
democrazia.
Il mensile «Classe operaia» nacque nel 1964. Il primo numero uscì nel
Gennaio, l’ultimo nel Marzo 1967. Essa sarà la rivista di Potere Operaio, il
gruppo della sinistra extraparlamentare che si pose su un terreno di rottura con
la tradizione del movimento operaio. E che traeva la sua ispirazione
dall’operaismo di Tronti e dalle analisi sulla trasformazione
dell’organizzazione del lavoro nelle fabbriche del suddetto Panzieri.
Sul N. 3 del Maggio 1965, leggiamo che, oltre al direttore Mario Tronti, il
responsabile era Francesco Tolin. La direzione era a Roma, salita di S. Onofrio
21. La redazione era composta da Romano Alquati, Alberto Asor Rosa, Gaspare De
Caro, Rita Di Leo, Claudio Greppi, Toni Negri. Ulteriori collaboratori del
numero: Luciano Arrighetti, Giuliano Artioli, Sergio Bologna, Mauro Gobbini,
Mario Mariotti, Manfredo Massironi e Teresa Rossi.
L’articolo
Operai e Pci. Storia di un rapporto difficile,
a firma r.d.l., è a pp. 27-30.
Una lotta politica direttamente operaia è stata
esplicitamente rifiutata dal PCI sin dal primo momento, sin dalle prime mosse
sulla scena politica dell’Italia del ’44. Togliatti motiverà il rifiuto al VII
congresso del partito, affermando che la dittatura del proletarîato «non si
adattava al desiderîo di larga unità nazionale esistente in tutti gli strati
sociali».
Venne così elaborato un programma, che ha una somiglianza stupefacente con
quello della destra del partito russo del 1905. Lenin giudicava la situazione
politica, maturata in seguito alle lotte operaie e alle rivolte contadine, come
favorevole ad un rafforzamento del capitalismo avanzato. Il proletariato, non
potendo passare immediatamente alla battaglia decisiva contro i padroni, doveva
proporsi la crescita della lotta di classe. La partecipazione del partito
operaio ad un governo, imposto dalla rivoluzione democratica, aveva questo
obiettivo. Allo stesso tempo gli operai dovevano essere armati e organîzzati,
pronti a sconfiggere dal basso qualsiasi tentativo controrivoluzionario. La
destra del partito spacciava, invece, come vittoria decisiva sullo zarismo
l’aborto costituzionale con cui minacciava finire la rivoluzione e poneva come
compito fondamentale del proletariato la collaborazione con le forze progressive
per una trasformazione democratica della società.
Anche per i dirigenti del PCI, quarant’anni pîù tardi, non vi sono dubbi: il
paese – dopo la liberazione dal fascismo – deve essere indirizzato verso la democrazia politica. Il disegno, che va
dal Piano del lavoro alla politica delle alleanze, dalla Costituzione
repubblicana ai Consigli di gestione, comprende anche la lotta di classe. La
pressione operaia deve agire come minaccia contro gli egoismi ed i capricci
degli imprenditori e le incertezze dei politici borghesi, all’interno di un
complesso meccanismo di potere che assegna alla classe operaia, attraverso il
suo partito, una funzione di guida della società. In questo contesto trova la
sua ragion d’essere la coesistenza tra lo spontaneismo operaio nelle lotte e le
profferte di collaborazione del gruppo dirigente verso governi, preti e padroni
in nome della Patria e della Costituzione.
Realizzare una società economicamente e politicamente stabile, con la
collaborazione attiva della classe operaia è il legittimo sogno di politici
borghesi intelligenti; se tale sogno rappresenta il programma massimo di un
partito comunista, forte di un milione di operai, diviene inevitabile lo scontro
fra strategia riformista e tattica rivoluzionaria. Per tanti anni si è alluso
alla doppiezza dei dirigenti del PCI, i quali avrebbero finto di voler
collaborare mentre in realtà tramavano piani sovversivi, ma un esame anche
superficiale della politica del partito convince della loro linearità: convinti
nemici della scelta rivoluzionaria ieri con l’iniziativa del Piano del lavoro,
convinti avversari dei monopoli oggi con la proposta di una programmazione
«democratica». Non di doppiezza si deve tacciare la politica del PCI ma di
utopia. Usare Lenin per maturare il nostro provinciale capitalismo, usare gli
operai per istruire i padroni è una formula la cui riuscita dipende
dall’adesione dei protagonisti. L’adesione dei capitalisti non è mai stata
conquistata.
L’adesione operaia degli anni 45-49 dipese dal fatto che la prospettiva politica
trentennale del PCI, venne scambiata come tattica momentanea, necessaria perché
gli avversari di classe non scoprissero le vere intenzioni operaie. Il mandato
fiduciario di cui godeva il partito, in quegli anni, appariva illimitato, in
realtà il terreno politico formale sul quale partiti di destra e di sinistra
stavano combattendo le prime battaglie «democratiche», impegnava solo in modo
generico la massa sociale operaia. Per gli operai il vero terreno di scontro era
la fabbrica. Nelle fabbriche, dal ’45 al ’47, gli operai si comportavano come
fossero sul punto di prendere il potere e anzi di essersene già impadroniti, per
mezzo degli strumenti e delle iniziative dei PCI.
L’equivoco era tale che si accettò la tregua salariale, firmata dalla CGIL, e si
vide nel Piano del lavoro un primo abbozzo di programma socialista. Allo stesso
tempo la partecipazione ai Consigli di gestione era considerata come l’ipoteca
operaia sull’uso dei mezzi di produzione, fino al ’46 in mano ai CLN. Il
Comitato di fabbrica, la Commissione interna e la cellula erano le leve per
l’esercizio del potere operaio nella singola fabbrica. Gli operai si iscrivevano
al sindacato di malavoglia, come un favore personale da fare al segretario della
cellula; per la classe la vita sindacale aveva lo stesso valore che la passione
per la Costituzione e le altre istituzioni democratiche e borghesi, per lodare
le quali stampa e alti funzionari di partito sprecavano tante parole. Nella
fabbrica per queste passioni non c’è posto, nella fabbrica si discute col
padrone dell’organizzazione del lavoro e gli si impone il proprio punto di
vista, si cacciano i capisquadra fascisti, si esaltano la grandezza del compagno Stalin e
il paradiso sovietico. Nella fabbrica si attende. Gli operai non hanno dubbi sul
programma del partito perché è il partito comunista, perché si ispira all’Unione
Sovietica e soprattutto perché ciascun operaio constata nella propria fabbrica
che gli operai sono il partito. E il potere operaio viene affermato ed
esercitato proprio imponendo al padrone le iniziative del PCI. Ma accanto alle
iniziative dall’alto v’erano quelle che spontaneamente e quotidianamente gli
operai, guidati dai quadri comunisti, portavano avanti affinché la lotta
politica di classe non subisse pause. Purtroppo la lotta di classe durava otto
ore al giorno, giacché fuori dalla fabbrica, l’azione del partito tendeva
oggettivamente ad isterilire la tensione operaia. L’accordo ai vertici per una
tregua salariale e per far uscire dalle tasche degli operai i soldi per
ricostruire le fabbriche, cozzava con la quotidiana prova di forza tra i singoli
padroni e la massa operaia.
La tattica rivoluzionaria del partito portava al rafforzamento del potere
operaio nella fabbrica, la strategia riformista indeboliva la posizione della
classe operaia nella società.
Se padroni e operai avessero fatto scoppiare la contraddizione tra tattica e
strategia, la lotta di classe avrebbe oltrepassato i limiti imposti da una
realtà politica così equivoca. E invece i padroni cacciarono i ministri
comunisti dal governo «interclassista» e gli operai aderirono alla prima
esperienza elettorale. La delusione del 18 aprile ebbe per gli operai il
significato di una riscoperta della propria situazione di minoranza
rivoluzionaria, all’interno di un sistema capitalistico. L’adesione alla
messinscena democratica del voto per la scalata parlamentare al potere si
rovesciò in una crescita della pressione sul partito, di cui si esaltava la
guida per la rivoluzione «vera». E ogni occasione per combattere veniva raccolta
ed anche provocata. L’azione di massa, aperta, violenta (tipo i fatti del MSI a
Torino) appariva l’unico metodo per cacciare i padroni. In attesa dello scontro
decisivo che ormai non poteva tardare gli operai accettarono ed imposero una
disciplina ed una organizzazione del partito, riconosciute come indispensabili
ad un esercito in lotta. In realtà, la stalinizzazione del partito, nelle
prospettive controrivoluzionarie del gruppo dirigente, aveva una funzione di
controllo dello spontaneismo operaio. Lo scontro tra le due diverse, opposte
funzioni del partito scoppierà, come è noto, in occasione dell’attentato a
Togliatti.
Il contraccolpo positivo delle sconfitte operaie del 18 aprile e del 14 luglio
venne registrato immediatamente dal padronato, che si diede a preparare la
controffensiva. La rimonta del potere padronale avvenne su due fronti, quello
della riorganizzazione del rapporto di lavoro e quello della spoliticizzazione
della vita di fabbrica.
La crisi di crescenza, attraversata dal capitalismo italiano dal ’49 al ’53,
produsse varie trasformazioni nel mercato del lavoro. Da un lato la
smobilitazione di tante fabbriche, nate intorno all’industria bellica, creava
plaghe di disoccupazione nei vecchi centri industriali, dall’altro gli
investimenti del Piano ERP [Piano Marshall] permettevano un salto
tecnologico nei settori industriali più attivi. Il nuovo processo di produzione,
sconvolgendo il tradizionale rapporto uomo macchina, indebolì la organizzazione
spontanea del collettivo operaio. Si rese difficile ai quadri comunisti di
lasciare il posto di lavoro, per correre in un altro reparto dove urgeva
organizzare la protesta contro un capo o contro un ordine della direzione.
Intanto il salto tecnologico non poteva venir realizzato da organismi
«interclassisti» accettati dagli operai soltanto se riducevano i tempi di
lavoro. I Consigli di gestione entrarono in crisi. Gli operai si resero conto
che la collaborazione col padrone nei Consigli equivaleva ormai all’accettazione
di più raffinati piani di sfruttamento e al padrone riuscì facile dapprima
chiudere le sedi e requisire i registri e poi mettere fine del tutto
all’esperienza. Da quel momento la collaborazione del PCI all’espansione
capitalistica uscì dalla fabbrica. La fine dei Consigli di Gestione si ricollega
alla riconquista padronale di una piena direzione dello sviluppo economico, che
dà inizio ad una nuova fase della battaglia operaia contro la classe dei
capitalisti.
Scoppiarono aspre lotte di fabbrica, di categoria, di settore contro il singolo
padrone, contro l’associazione padronale; il terreno di scontro era la difesa
dell’uso e del prezzo della forza lavoro; gli strumenti di lotta andavano dallo
sciopero alla «non collaborazione» organizzata all’interno del luogo di
produzione. Intanto era ancora in vigore il contratto di lavoro fascista. Chi
aveva pensato negli anni caldi a stipulare accordi con coloro che si era per
distruggere definitivamente? Ma adesso saranno proprio gli operai comunisti a
prendere l’iniziativa delle lotte sindacali, ad organizzarle, a spingere gli
operai agli scioperi per la paga, per l’orario, per i cottimi. Gli strumenti del
partito in fabbrica, dalla cellula al Comitato della pace, diventarono gli
strumenti delle lotte, che il partito stesso era costretto ad organizzare e
dirigere sotto la pressione e l’impegno dei quadri operai.
Nel ’45 il partito era considerato l’arma di offesa di tutta la classe per
combattere il sistema, negli anni tra il ’49 e il ’53 [morte di Stalin: 5
marzo] divenne la guida per difendersi dalla controffensiva padronale. Nel
clima di disoccupazione, di fame, di occupazione delle terre, di grandi
incertezze politiche, gli operai occupati nelle grandi fabbriche del Nord,
rinsaldano i legami col PCI e lo usano. Furono gli anni in cui salì il numero
delle cellule, delle sezioni , degli iscritti operai, in cui la contraddizione
tra l’uso operaio del PCI e le iniziative riformiste a livello politico formale
raggiunge l’assurdo. Si pensi alla proposta comunista di abbandonare qualsiasi
tipo di opposizione in cambio di un governo di pace, fatta in un periodo in cui
alla prima notizia di smobilitazione di una fabbrica, gli operai l’occupavano
con un comportamento da padroni. E l’azione veniva organizzata e diretta dalla
federazione locale del PCI, inevitabilmente condizionata dalla pressione
operaia. Il gruppo dirigente del partito tentò una via di uscita da una realtà
politica così imbarazzante, decidendo di organizzare il sindacato in fabbrica.
Si spinsero gli operai comunisti, i quadri del partito nella fabbrica, i capi
effettivi della vita politica e sindacale, ad abdicare alla funzione,
spontaneamente loro affidata dal collettivo operaio, per dedicarsi ai compiti
stabiliti dal partito. Le lotte operaie dovevano rimanere di esclusiva
competenza della Commissione Interna e dei funzionari sindacali. In realtà il
sindacato continuerà ancora per qualche tempo ad essere usato come cinghia di
trasmissione, ma intanto si era scoperto il fianco all’attacco padronale.
Con enorme sforzo, fabbrica per fabbrica a secondo dei rapporti di forza, il
padronato cominciò a vietare la diffusione della stampa di partito, a proibire i
comizi, a limitare le prerogative della Commissione interna. Gli operai erano
sempre liberi, secondo la prassi democratica, di iscriversi ai sindacati e di
lottare per il rispetto del contratto ed anche di scioperare, purché le
motivazioni dello sciopero fossero strettamente conseguenti all’azione
sindacale.
La classe rispose all’attacco aderendo a qualsiasi occasione di sciopero
«politico» da quello per l’eccidio di Melissa [24 ottobre 1949, allora in
provincia di Catanzaro, oggi Crotone; ndr] a quello contro il generale «peste»
[soprannome del Gen. Matthew Bunker Ridgway, comandante della NATO che arrivò in
Italia il 17 giugno 1952; ndr]. Vennero sferrate allo stesso tempo le prime
grandi battaglie sindacali del dopoguerra.
Protagonisti e capi degli scioperi «politici» e delle lotte sindacali
continuavano ancora ad essere i quadri comunisti, i segretari di cellula, i
funzionari di base. E contro di essi, contro i nemici della quiete produttiva
dell’azienda si scatenerà il padronato.
Studiata la rete organizzativa, in grado, attraverso i suoi strumenti ed i
quadri, di raggiungere e collegare l’intera organico operaio della fabbrica, si
prese a distruggerla con ogni mezzo.
L’epurazione durò qualche anno: gli operai protestavano e scioperavano anche
quando il segretario di cellula, operaio di prima categoria, dopo aver per mesi
scopato i gabinetti e spalato neve, era alla fine con qualche pretesto cacciato.
Occorse istituire un corpo di sorveglianti, ex carabinieri o celerini; far agire
una specie di tribunale speciale che interrogasse l’operaio sui suoi legami col
partito; dare premi speciali antisciopero e così via. Soprattutto si dovettero
licenziare centinaia e centinaia di attivisti comunisti per spezzare i legami
tra l’organizzazione del partito nella fabbrica e la massa operaia. La tragedia
che in quegli anni vissero i quadri comunisti aveva due aspetti, la perdita del
posto e quindi anche della possibilità di combattere il padrone in una grande
fabbrica, e la crescita dei dubbi sulla politica del partito.
Nel ’51 si tenne il terzo congresso del partito dopo la fine del fascismo [VII
dalla fondazione: Roma, 3-8 aprile; ndr]. Nelle
fabbriche il potere padronale stava riprendendo l’antica protervia e gli operai
denunziarono la situazione. Viva era l’esigenza di una risposta operaia, chiara
ed inequivocabile ed organizzata, all’offensiva della classe capitalistica. Di
tale esigenza non c’è quasi traccia nei resoconti del congresso; per il gruppo
dirigente del PCI quel che stava avvenendo nelle fabbriche rappresentava in
fondo un episodio marginale di lotta di classe, da sacrificare allo scontro tra
Stalin e il capitalismo occidentale. Come rimedio agli squilibri della società
italiana vennero del resto elaborate molte proposte, nelle quali doveva
consistere la «politica operaia» di un partito che agli interessi specifici
della classe anteponeva le esigenze nazionali-popolari di uno Stato capitalista
in fase di maturazione.
La politica operaia di un partito operaio equivale all’organizzazione del
processo rivoluzionario. Ma in una prospettiva socialdemocratica, compito del
partito diventa la difesa della dignità del cittadino-lavoratore. E infatti
l’iniziativa, che venne presa in risposta al «fascismo» reintrodotto in
fabbrica, fu l’appoggio alla proposta ACLI perché una commissione di inchiesta
parlamentare svolgesse una regolare inchiesta sui luoghi di lavoro. Perché
l’iter costituzional-democratico della proposta si concretizzasse in un
gruppetto di affabili signori in giro per le fabbriche a far domande difficili
agli operai, passarono cinque anni. Furono gli anni in cui un uso operaio del
partito comunista risultò difficile, non tanto per l’offensiva padronale, quanto
per la politica del gruppo dirigente sempre più conseguentemente tesa ad evitare
qualsiasi possibilità di scontro generale.
L’impossibilità di usare il partito in senso rivoluzionario porterà al distacco
sempre più pesante tra la massa operaia e il PCI. Il calo negli iscritti, nelle
presenze attive nelle cellule, nelle sezioni, nelle attività di partito,
realizzatosi vertiginosamente in pochi anni, riportò la «questione operaia»
all’attenzione del gruppo dirigente. Perdere gli operai significava la fine del
disegno togliattiano di una società interclassista, governata dalla classe
operaia, tramite il suo partito. La paura di perdere la base operaia diventò
maggiore di quella d’essere accusati dai colleghi in Parlamento, di trame
antidemocratiche.
Si riscoprì in biblioteca la parola socialismo e la si promise agli iscritti e
al paese come una specie di premio, dopo la conquista graduale e democratica di
una serie dì riforme. In occasione dell’ottavo congresso [dalla fondazione:
Roma, 8-14 dicembre 1956, ndr] si definì tale
prospettiva «via italiana a socialismo»... La risposta operaia ad essa fu il
rifiuto del PCI. A migliaia i quadri se ne andarono, sostituiti solo
parzialmente da bottegai, contadini, artigiani. Il partito si offriva ormai
apertamente come il difensore della piccola gente contro l’egoismo dei potenti.
I suoi programmi per un rinnovamento graduale della società, le parole d’ordine
contro i monopoli, le speculazioni, il costo della vita non lasciano
indifferenti nemmeno l’operaio singolo, il quale per l’appunto continua a dare
il voto al PCI, come al partito meno compromesso con i padroni.
E intanto la massa operaia si trova ad agire, senza la guida di un partito
rivoluzionario. Il vuoto, più che dalla massa, è avvertito dai quadri comunisti,
che sono ormai un terzo in meno di quanti erano dieci anni prima; e coloro che
se ne sono andati non sono stati sostituiti da giovani. Il rapporto tra quadri e
partito è un seguito di rotture e di tensioni.
È in un tale vuoto che nasce l’uso operaio dei sindacato degli anni ’60-’63. Da
parte dei quadri e degli operai comunisti la tendenza a rendere l’iscrizione
alla CGIL una scelta politica era sorta sin dal momento in cui PCI e padroni
avevano decretato la fine dell’attività del partito all’interno del luogo di
produzione. I segretari di cellula erano diventati membri di Commissione interna
e da tale sede continuavano ad organizzare e a premere sul collettivo operaio.
Il sindacato di «classe» dové molto penare per convincere padroni ed operai che
la CGIL era un sindacato costituzional-democratico come gli altri. I padroni per
convincersene avevano bisogno che gli operai se ne convincessero.
Gli operai risposero, imparando in pochi anni, ad usare organizzazione e
strumenti di qualsiasi sindacato agisse meglio per i loro interessi immediati.
Usavano la CGIL ma anche i sindacati aziendali se attraverso di essi risultava
più facile alzare il prezzo della loro prestazione. Abbandonano la CGIL quando
il legame col sindacato di «classe» complica la lotta con il padrone.
Le vittorie sindacali di questi ultimi anni si impongono all’attenta analisi di
capitalisti e politici per il grado di partecipazione con il quale la massa
operaia si impegna nella battaglia per l’orario o per il cottimo. Il livello
della lotta denuncia sì arretramenti nella coscienza politica collettiva, ma
rivela anche quanto la classe sia non disponibile per la prospettiva
socialdemocratica che partito e capitale ciascuno per proprio conto, intendono
offrirle.
La tensione anticapitalistica operaia rimane il maggior ostacolo alla
stabilizzazione del sistema a livello di capitale sociale. Diventa sempre più
urgente strappare agli operai qualsiasi strumento ed occasione oggettiva che
consenta loro di contrapporsi come classe antagonista.
Nella piattaforma socialdemocratica dei capitalisti viene inserito un uso
diretto dei sindacato e dei partiti. Il sindacato collegherà la sua funzione di
difesa della forza-lavoro a quella di strumento equilibratore dello sviluppo
sociopolitico del sistema. Il partito dovrebbe diventare – attraverso
l’esercizio della sovranità popolare – il punto di incontro degli interessi del
popolo lavoratore e delle esigenze del capitale.
Nel quadro della programmazione – e della conseguente riforma statuale della
società civile – si prevede di eliminare qualsiasi possibilità di espressione
autonoma per la classe operaia. A questo disegno partecipano CGIL e PCI,
ciascuno di essi chiedendo qualche riforma in più, in cambio di un controllo
assicurato della massa operaia.
Il sogno socialdemocratico dei padroni e del movimento operaio ufficiale va
distrutto. La classe operaia è oggi in grado, di assumere l’iniziativa di una
lotta direttamente politica all’interno del luogo di produzione, giacché lotta
politica può oggi equivalere anche ad una semplice lotta salariale
organizzata [grassetto nel testo; ndr].
È in una tale reale prospettiva di battaglie contro il sistema che si inserisce
l’esigenza dell’organizzazione di fabbrica del partito. Riportare il partito in
fabbrica su iniziativa operaia [grassetto nel testo; ndr], significa
oggi mettere in crisi il meccanismo di sviluppo capitalistico.
Lo scontro tra strategia riformista e tattica rivoluzionaria del PCI sarà questa
volta provocato e vinto dai quadri operai.
r.d.l.