Bibl.: «OG Informazione», bimestrale del Consiglio Nazionale dell’Ordine dei Giornalisti, diretto dal presidente dell'Ordine, Mario Petrina; Roma, XXX (1998), N. 6 (luglio), p.17
Omaggio di Giovanni Armillotta a Piero Ostellino
Giovanni Armillotta
Selezione e preparazione, una
riforma urgente
GIORNALISTI, IL NODO RESTA L’ACCESSO
ALLA PROFESSIONE
L’esigenza di una riforma per il
nostro organo di tutela non è certo una questione di oggi, bensì
portatrice di problemi e tematiche che contraddistinguono il nostro mestiere.
L’Ordine, sia a livello nazionale
che regionale, si è posto come programma primario la riforma della legge
che regola la professione giornalistica, vecchia ormai di trentacinque
anni e che non risponde più alla realtà del mondo dell’informazione,
sia per i nuovi mezzi tecnici di cui oggi si dispone sia perché è
cambiato il costume e si è enormemente allargato il campo dell’utenza,
di cui si sono dilatate anche le attese. Quindi il giornalista di oggi deve essere
molto più preparato sotto il profilo culturale, caratteriale e di conoscenze
tecniche. Si casca così subito nel problema centrale della questione e
cioè del chi sono e del come si diventa giornalisti, cioè il problema
dell’accesso alla professione. Esso già oggi è differenziato, perché
i professionisti escono bene o male da una selezione e debbono superare il periodo
di praticantato ed un esame di idoneità, anche se la loro scelta è
affidata ancora in gran parte più alla volontà degli editori che
a quella dei soggetti interessati, mentre i pubblicisti, coloro cioè che
hanno la facoltà di esercitare anche un’altra professione od attività,
si danno al giornalismo per libera scelta, ma non si sottopongono ad alcuna reale
selezione, perché acquisiscono il titolo professionale molto più
semplicemente, scrivendo cioè per un biennio e chiedendo poi l’inserimento
nell’Albo. Per quanto riguarda quest’ultimo aspetto è bene considerare
che tantissimi pubblicisti che vivono del mestiere, per una serie di ragioni
che esporrò più avanti –, non riescono ad approdare ad un quotidiano
o periodici settimanali di raggio nazionale. A pensarci bene le due strade, trattandosi
della professione eticamente più delicata sono imperfette.
Per praticità comunque, limitiamo
l’esame ai professionisti, cioè a coloro che fanno i giornali considerati
di maggior peso per la società, anche se pubblicazioni, più limitate
nel numero dei lettori, ma spesso autorevolissime in argomenti e firme, sono
non meno importanti per la trasmissione delle idee, e contano nel complesso molto
più di quanto non appaia a prima vista. L’Ordine professionale ha cercato
di sottrarre agli editori il più possibile la scelta dei nuovi giornalisti,
per ovvie ragioni, anche se in teoria si potrebbe pensare che l’editoria dovrebbe
avere interesse a scegliere i migliori, mentre così non sempre è,
soprattutto dove maggiore è il richiamo del fascino che il giornalismo
ancora emana.
Gli ordini regionali hanno anzitutto
la possibilità, a richiesta, di riconoscere una compiuta pratica a quei
giovani che lavorano da giornalisti nelle redazioni senza essere assunti, avviandoli
all’esame di idoneità e quindi all’acquisizione del titolo professionale.
Alcuni ordini hanno istituito borse di studio con l’aiuto delle Regioni offrendo
poi i migliori agli editori locali, esperimento riuscito per qualche tempo, ma
successivamente accantonato vista la più difficile situazione del mercato
e tutto considerato anche una certa cieca resistenza degli editori che vogliono
scegliere da sé i propri "dipendenti". In Italia esistono buone ed organizzate
scuole di giornalismo, riconosciute dall’Ordine la cui frequenza sostituisce
il praticantato ed i cui "laureati" dovrebbero trovare subito collocazione, in
specie in nord Italia, perché soprattutto a Milano c’è sete di
gente preparata da parte di una editoria a più largo respiro di quelle
regionali. Ma su cento giornalisti professionisti che escono, almeno novanta
sono ancora oggi scelti dal datore di lavoro e le motivazioni sono le più
diverse e le meno edificanti: dal nepotismo, alla lottizzazione politica nazionale
o locale, al desiderio di avere elementi più docili e guidabili anche
se possibilmente non troppo scadenti, e soltanto,come ultimo elemento di scelta,
l’effettiva capacità o predisposizione professionale. Perché l’assurdo
del nostro lavoro sta tutto nel fatto che non è il titolo a precedere
l’attività, come dovrebbe essere, ma l’attività a costituire la
base per il titolo!
L’accesso va dunque rivisto, come
l’impegno a trovare e suggerire le strade più idonee in modo da varare
quanto prima possibile nuove disposizioni di legge.
Tra i tanti problemi che il giornalismo
oggi presenta, questo della selezione e della scelta, ed anche della preparazione
e dell’aggiornamento, è il più pressante perché influisce
direttamente sulla qualità dei soggetti chiamati ad operare nel giornalismo.
Le modifiche naturalmente dovranno tener presente anche l’altra grande realtà
delle testate di settore scientifico, storico-politico, sociale, economico, ecc.,
che ospitano colleghi tesserati, i quali, in larga parte, non hanno la possibilità
divedersi riconosciuto un ruolo stabile nel futuro prossimo, anche se in
pratica
essi già sono professionalmente giornalisti con una preparazione
specifica altissima, ed una cultura generale più che buona.
Una nuova regolamentazione di meriti
acquisiti nel vasto campo della pubblicistica e dell’accesso reale alla professione
è non soltanto una necessità imposta dalle nuove necessità
del giornalismo. È anche una difesa della figura del giornalista, della
sua personalità, perché è indubbio che la confusione degli
ultimi anni non ha certo migliorato né l’effettiva preparazione dei giornalisti
né l’immagine che l’opinione pubblica ha di noi: l’uomo della strada ci
considera privilegiati, in quanto vige la mentalità della penna che non
pesa e di conseguenza non arreca fatica fisica. Pazzesco! Ma a chi lo dobbiamo
questo luogo comune? Forse perché lungamente ha dominato l’antica visione
italiana del posto fisso: «Una volta "arrivato" per me esiste ancora
la Cecoslovacchia, in quanto non ho gli stimoli giusti per sapere che il 31 dicembre
1992 è successo qualcosa».
Omaggio di Giovanni Armillotta a Piero Ostellino
“Trovo veritiero il detto che un buon giornalista è chi non è né avanti, né indietro di un solo minuto rispetto a ciò che pensa il lettore.
È la formula del «successo continuo», sotto tutte le latitudini politiche e in tutte le circostanze temporali. Ma non la condivido, né sono mai riuscito a seguirla. Sono per la definizione di George Orwell: «La vera libertà di stampa consiste nel non dire alla gente quello che alla gente piace sentirsi dire».
A me è andata bene lo stesso. Ma penso ai giovani. Oggi, il novanta per cento delle fortune di un giornalista non dipendono dalle sue qualità professionali, ma dalle sue capacità di tessere relazioni.
Un bel giro di telefonate quasi quotidiane ai maggiori direttori, ai colleghi «giusti», a qualche editore e a qualche uomo politico, la presenza assidua alle cene e nei salotti «che contano» e la fama è assicurata. Per molti di costoro la frase della vecchia scuola napoletana «bada che ti leggo» è una minaccia. Caro figlio mio, per far carriera non serve poter dire «io
c’ero», a meno che la stessa cosa non la dicano anche le agenzie, visto che i giornali preferiscono essere tutti uguali per non correre rischi.
Serve essere stati alla festa di compleanno del collega o magari di sua moglie, al pranzo
dell’onorevole e dell’editore. Che notoriamente non leggono gli articoli di
quei giornalisti di cui, poi, parleranno bene” (da Piero Ostellino, 1979,
i cinesi attaccano il Vietnam e tutto gridano alla guerra mondiale, “Corriere
della Sera”, 5 agosto 1999).
© Giovanni Armillotta, 1998