12 aprile 2006

ADDIO A GIUSEPPE ARE
Anticipò il tramonto del Pci
Dalla ricerca storica a un’intensa attività giornalistica

di Giovanni Santambrogio

L’anomalia italiana del secondo Novecento, quella d’essere stato il Paese occidentale con il Partito comunista più forte, ha avuto in Giuseppe Are un attento e acuto interprete. I suoi saggi Radiografia di un partito. Il Pci negli anni Settanta (Rizzoli, 1980) e Comunismo, compromesso storico e società italiana (Costantino Marco, 2004) sottolineano quanto il progetto di Botteghe oscure e di Enrico Berlinguer non potesse realizzarsi. Un innesto fallito che trovava le sue ragioni nella cultura e nella composizione sociale degli italiani. Giuseppe Are conosceva bene il Pci, avendovi militato fino ai fatti d’Ungheria del 1956. “Normalista”, allievo di Ernesto Sestan assieme a Riccardo Fubini e Domenico Settembrini, è morto domenica 9 nella sua abitazione di Pisa. Sardo di origine – era fiero di essere di Orani – aveva 76 anni. Per anni docente di Storia contemporanea alla facoltà di Scienze politiche all’Università di Pisa, accanto al lavoro di ricerca (non va dimenticato Economia politica nell’Italia liberale [1890-1915], edito dal Mulino nel 1974), Are svolgeva un’attività giornalistica intensa.
Il mondo della carta stampata lo affascinava sia perché lo aveva studiato da vicino (da segnalare il saggio introduttivo alla Storia del Corriere della sera di Glauco Licata, Rizzoli 1976) sia per le possibilità di intervenire come intellettuale nel dibattito politico del Paese. Si affermò subito come editorialista. Lontana da lui la tentazione della militanza per perseguire invece l’analisi delle dinamiche politiche interne e internazionali in un Paese dai Governi di breve durata e dagli equilibri precari con una Democrazia cristiana incalzata dal Pci e da un Partito socialista arbitro degli equilibri e pronto a imporre la sua leadership.
Nel 1990 con l’articolo «Un sindacato allo specchio» iniziò la collaborazione al Sole-24 Ore, dapprima per le pagine culturali del supplemento domenicale, poi per quelle quotidiane dei commenti diventando una firma assidua fino al 2001, quando la malattia lo costrinse a sospendere. Osservatore scrupoloso dei nuovi fenomeni sociali e politici, due questioni emergenti lo preoccupavano: l’opposizione dei giovani italiani alla globalizzazione (l’ultimo suo articolo s’intitolava «Questa globalizzazione tutta da capire») e le resistenze a riformare l’Università, snodo cruciale dello sviluppo del Paese.

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