"METODO", N. 19/2003

Maurizio Vernassa
(Università degli Studi di Pisa: Storia e Istituzioni dell’Africa, e delle Americhe)
L’IRAQ E DOPO

Il presidente George Bush ed il suo apparato politico e militare hanno più volte richiamato a giustificazione dell’operazione Iraqi Freedom la necessità di avviare un rapido processo di democratizzazione dell’intera regione mediorientale. Si tratta, in sostanza, di quello che il “Wall Street Journal” ha definito «il sogno di Bush», ovverosia un riassetto del sistema di potere oggi dominante non solo in Iraq, ma anche in Iran ed in Siria, con conseguenti contraccolpi sulla sistemazione definitiva del problema palestinese, parte consistente della nuova versione della vecchia dottrina del «containment», varata all’inizio della guerra fredda da Harry Truman.
In realtà il disegno non è nuovo. Lo ricorda efficacemente in una recente nota Ennio Caretto, attribuendone la vera paternità al conservatore Richard Perle, già collaboratore di Ronald Reagan e fino a pochi giorni fa consigliere del Pentagono, che ne aveva scritto nel 1996 all’allora premier israeliano Netaniahu. Giudicato irrealizzabile allora, il terribile attacco agli Stati Uniti del settembre 2001 lo ha riproposto all’attenzione della dirigenza americana, che potrebbe varare la sua completa attuazione all’indomani della vittoria sull’Iraq, relativamente rapida e totale.
Credo che sia tuttavia lecito, se non addirittura doveroso, avanzare consistenti perplessità sulla possibilità che lo scenario ipotizzato dagli analisti statunitensi si realizzi. In primo luogo la maggior parte del mondo occidentale, e non solo Washington e Londra, continuano a parlare di «democrazia» riferendosi ad un unico modello culturale e politico: il proprio. In realtà la perdurante specificità di parti consistenti del mondo contemporaneo (e non mi riferisco solo al mondo islamico, ma anche al complesso universo asiatico) rendono possibili percorsi flessibili, articolati e non omologabili, nel cammino verso la democrazia. Al punto da potere sicuramente ipotizzare diverse «democrazie», ognuna delle quali rispettosa delle proprie tradizioni sociali e culturali, anche se non perfettamente corrispondente alla concezione occidentale e sempre e comunque perfettibile in un’auspicabile e comunque inevitabile progressione.
L’imposizione dall’esterno, e per di più attraverso una guerra, di un sistema modellato sui canoni della «nostra» democrazia – determinati faticosamente attraverso il complesso percorso storico che ha caratterizzato l’Europa e le sue propaggini a partire dalla prima rivoluzione inglese del secolo XVII fino ad oggi – rischia di trasformarsi in un disastroso fallimento. In concreto questo atteggiamento appare l’erede più autentico della più classica ideologia coloniale, continuata nella successiva fase della decolonizzazione e puntualmente ripresentatasi oggi davanti ai nostri occhi. Al contrario, come ha sostenuto Paolo Branca ne “Il Mulino”
(1), il fatto che «molti paesi dell’Asia e dell’Africa, dopo essersi affrancati dal dominio coloniale, abbiano liberamente adottato sistemi costituzionali dimostrerebbe che si è trattato di una scelta indipendente, fatta sulla base dell’autonomo riconoscimento di un valore e non frutto di un’imposizione».
Nel caso specifico dei Paesi arabo-musulmani, sottolinea ancora Branca, sarebbe da imputare alla modernizzazione incompiuta da essi vissuta una sorta di «ipertrofia della tematica identitaria», da cui è derivata la convinzione di accedere allo sviluppo seguendo una strada propria, anziché accettarlo come l’imposizione di qualcosa di esterno. Il pericolo più che realistico è quello di bloccare i difficoltosi processi di democratizzazione in atto e di fornire nuovo e consistente alimento all’integralismo islamico, la cui tendenziale crisi e declino (per dirla con Gilles Kepel), prima e dopo l’attacco agli Stati Uniti, erano divenuti evidenti.
L’aprirsi della nuova fase del rinnovamento verso il quale il mondo musulmano viene sospinto in modo inarrestabile dai tratti salienti del ventunesimo secolo, determinato dalle nuove modalità di fusione con l’universo occidentale ed in particolare attraverso le emigrazioni ed i loro effetti, nonché dalla rivoluzione delle telecomunicazioni e dell’informazione, impone al nostro mondo nuove responsabilità. In tale prospettiva occorrerebbe quindi prestare maggiore attenzione e sostegno alle nuove generazioni delle élites che accedono al potere, dal Marocco di Mohammed VI alla Giordania di Abdallah II, all’entourage tecnocratico e militare del presidente algerino Bouteflika, a quello del presidente tunisino Ben Alì, a quello dell’Indonesia e del Pakistan (e non potrei non ricordare anche il nuovo corso della Jamâhîriyya Araba Popolare Socialista libica di Gheddafi), affinché riescano a proiettarsi verso il futuro. Siano cioè in grado di attivare, attraverso un vero ed efficace programma di riforme, un nuovo percorso: il proprio tragitto verso la democrazia. Esiste nei Paesi arabi e/o islamici una strada alternativa alla rigida interpretazione della šarî‘a ed una schiera nutrita di intellettuali del mondo musulmano sta con coraggio proponendo modelli democratici del tutto conciliabili con l’Islâm e la cultura da esso prodotta.
Il silenzio delle armi ed un rinnovato impegno dell’ONU, comprendente una sua non più dilazionabile rifondazione, e dell’intera comunità internazionale in questa direzione sembrano le condizioni essenziali per potere andare avanti: verso la pace.

Nota

(1) Paolo Branca, L’Islam oltre il fondamentalismo, “il Mulino”, n. 405, Bologna, LII (2003), n. 1, gennaio-febbraio.Su