Maurizio Vernassa
(Università
degli Studi di Pisa: Storia e Istituzioni dellAfrica, e delle Americhe)
L’IRAQ E DOPO
Il presidente George Bush ed il suo apparato politico e militare
hanno più volte richiamato a giustificazione dell’operazione Iraqi Freedom
la necessità di avviare un rapido processo di democratizzazione dell’intera
regione mediorientale. Si tratta, in sostanza, di quello che il “Wall Street
Journal” ha definito «il sogno di Bush», ovverosia un riassetto
del sistema di potere oggi dominante non solo in Iraq, ma anche in Iran ed in
Siria, con conseguenti contraccolpi sulla sistemazione definitiva del problema
palestinese, parte consistente della nuova versione della vecchia dottrina del
«containment», varata all’inizio della guerra fredda da Harry Truman.
In realtà il disegno non è nuovo. Lo ricorda efficacemente in una recente nota
Ennio Caretto, attribuendone la vera paternità al conservatore Richard Perle,
già collaboratore di Ronald Reagan e fino a pochi giorni fa consigliere del
Pentagono, che ne aveva scritto nel 1996 all’allora premier israeliano
Netaniahu. Giudicato irrealizzabile allora, il terribile attacco agli Stati
Uniti del settembre 2001 lo ha riproposto all’attenzione della dirigenza americana,
che potrebbe varare la sua completa attuazione allindomani della vittoria
sull’Iraq, relativamente rapida e totale.
Credo che sia tuttavia lecito, se non addirittura doveroso, avanzare consistenti
perplessità sulla possibilità che lo scenario ipotizzato dagli analisti statunitensi
si realizzi. In primo luogo la maggior parte del mondo occidentale, e non solo
Washington e Londra, continuano a parlare di «democrazia» riferendosi
ad un unico modello culturale e politico: il proprio. In realtà la perdurante
specificità di parti consistenti del mondo contemporaneo (e non mi riferisco
solo al mondo islamico, ma anche al complesso universo asiatico) rendono possibili
percorsi flessibili, articolati e non omologabili, nel cammino verso la democrazia.
Al punto da potere sicuramente ipotizzare diverse «democrazie»,
ognuna delle quali rispettosa delle proprie tradizioni sociali e culturali,
anche se non perfettamente corrispondente alla concezione occidentale e sempre
e comunque perfettibile in unauspicabile e comunque inevitabile progressione.
L’imposizione dall’esterno, e per di più attraverso una guerra, di un sistema
modellato sui canoni della «nostra» democrazia determinati
faticosamente attraverso il complesso percorso storico che ha caratterizzato
l’Europa e le sue propaggini a partire dalla prima rivoluzione inglese del secolo
XVII fino ad oggi rischia di trasformarsi in un disastroso fallimento.
In concreto questo atteggiamento appare l’erede più autentico della più classica
ideologia coloniale, continuata nella successiva fase della decolonizzazione
e puntualmente ripresentatasi oggi davanti ai nostri occhi. Al contrario, come
ha sostenuto Paolo Branca ne “Il Mulino”(1),
il fatto che «molti paesi dell’Asia e dell’Africa, dopo essersi affrancati
dal dominio coloniale, abbiano liberamente adottato sistemi costituzionali dimostrerebbe
che si è trattato di una scelta indipendente, fatta sulla base dell’autonomo
riconoscimento di un valore e non frutto di un’imposizione».
Nel caso specifico dei Paesi arabo-musulmani, sottolinea ancora Branca, sarebbe
da imputare alla modernizzazione incompiuta da essi vissuta una sorta di «ipertrofia
della tematica identitaria», da cui è derivata la convinzione di accedere
allo sviluppo seguendo una strada propria, anziché accettarlo come l’imposizione
di qualcosa di esterno. Il pericolo più che realistico è quello di bloccare
i difficoltosi processi di democratizzazione in atto e di fornire nuovo e consistente
alimento all’integralismo islamico, la cui tendenziale crisi e declino (per
dirla con Gilles Kepel), prima e dopo l’attacco agli Stati Uniti, erano divenuti
evidenti.
L’aprirsi della nuova fase del rinnovamento verso il quale il mondo musulmano
viene sospinto in modo inarrestabile dai tratti salienti del ventunesimo secolo,
determinato dalle nuove modalità di fusione con l’universo occidentale ed in
particolare attraverso le emigrazioni ed i loro effetti, nonché dalla rivoluzione
delle telecomunicazioni e dell’informazione, impone al nostro mondo nuove responsabilità.
In tale prospettiva occorrerebbe quindi prestare maggiore attenzione e sostegno
alle nuove generazioni delle élites che accedono al potere, dal Marocco
di Mohammed VI alla Giordania di Abdallah II, all’entourage tecnocratico
e militare del presidente algerino Bouteflika, a quello del presidente tunisino
Ben Alì, a quello dell’Indonesia e del Pakistan (e non potrei non ricordare
anche il nuovo corso della Jamâhîriyya Araba Popolare Socialista libica
di Gheddafi), affinché riescano a proiettarsi verso il futuro. Siano cioè in
grado di attivare, attraverso un vero ed efficace programma di riforme, un nuovo
percorso: il proprio tragitto verso la democrazia. Esiste nei Paesi arabi e/o
islamici una strada alternativa alla rigida interpretazione della arîa
ed una schiera nutrita di intellettuali del mondo musulmano sta con coraggio
proponendo modelli democratici del tutto conciliabili con l’Islâm e la
cultura da esso prodotta.
Il silenzio delle armi ed un rinnovato impegno dell’ONU, comprendente una sua
non più dilazionabile rifondazione, e dell’intera comunità internazionale in
questa direzione sembrano le condizioni essenziali per potere andare avanti:
verso la pace.
Nota
(1) Paolo Branca, LIslam oltre il fondamentalismo, il Mulino, n. 405, Bologna, LII (2003), n. 1, gennaio-febbraio.Su