"METODO", N. 19/2003

Luigi Sapio
(Scuola Superiore di Studi Universitari e di Perfezionamento Sant’Anna - Pisa)
PROLEGOMENI AL DIRITTO MUSULMANO

L’Islâm, dopo il massiccio impatto “mediatico” dell’11 settembre, è ormai al centro di un interesse che appare caratterizzato da una certa ambiguità. Se da una parte, infatti, vediamo schierati i solerti paladini di un occidente “cristianamente laico” o “laicamente cristiano”, assurto apoditticamente a fonte universale di valori assoluti (se i rapporti di forza fossero diversi, non si potrebbe forse parlare di “integralismo occidentale”?), dall’altra certo non manca chi è pronto a difendere a oltranza, altrettanto apoditticamente, le ragioni del “contendente”. Tra i due estremi vi è, infine, una serie di luoghi comuni pubblicamente sbandierati da sedicenti “esperti”. Fare chiarezza su questo mondo, per molti sconosciuto, è possibile solo a condizione di analizzare il fenomeno nella sua complessità, senza schierarsi aprioristicamente per una o per l’altra parte.
In primo luogo va precisato che il termine arabo islâm proviene dalla radice sallâma (II forma di salâma), che significa «sottomettersi (a Dio)», comune anche alla parola salâm, che significa «pace» (concetto suscettibile di variazioni semantiche condizionate dagli stessi contesti di riferimento, con apprezzabili divergenze all’interno dello stesso Islâm, dove non mancano i sostenitori di una pax islamica che presenta aspetti alquanto inquietanti). Tale sottomissione è totale e coinvolge (almeno come elemento fondante, e quindi vincolante, la stessa Umma, i.e. «la Comunità islamica») tutti gli aspetti della vita individuale e sociale dell’uomo. Religione, politica, diritto, cultura, economia, morale, non sono che epifenomeni di una sola realtà unificata, almeno da un punto di vista programmatico, dalla sottomissione stessa. Le modalità essenziali di questa sono contenute nel «Libro» (il Corano), rivelato da Dio (in arabo: Allâh) all’ultimo dei Profeti, Muhammad, nella Penisola araba (in particolare tra La Mecca e Yatrib, ribattezzata poi, in suo onore, Madînat an-Nabi, i.e. «la città del Profeta»), tra il 610 e il 632 (anno della sua morte) dell’èra cristiana. Il musulmano (in arabo muslim, i.e. «colui che è sottomesso») ha quindi la sua stessa esistenza integralmente plasmata, almeno da un punto di vista deontologico (che, almeno formalmente, non ammette bid‘a i.e. «innovazione», potenziale fonte di eresia) dai precetti della šarî‘a, che egli deve seguire conformando ad essa il proprio agire. La šarî‘a significa, letteralmente «la via», rivelata da Dio alla «Gente del Libro», compresi quindi Ebrei e Cristiani, ma in senso meno ampio «la via» rivelata ai soli Musulmani con la Rivelazione ultima, e quindi perfetta e definitiva, dello stesso Corano, comprendente sia le prescrizioni relative al «foro interno» (che comprende gli a‘mâl al-qalb, i.e. «gli atti del cuore»), sia quelle concernenti il «foro esterno» (che comprende gli a‘mâl al-badan, i.e. «gli atti del corpo»). In un senso ancora più stretto, la šarî‘a indica, infine, il solo «foro esterno», che coincide col fiqh, corrispondente almeno in certa misura a ciò che noi definiamo «diritto», una volta sottratte le norme relative al culto (‘ibâdât).
Da questa concezione tendenzialmente “totalizzante” dell’esistenza umana consegue, come naturale corollario, una spiccata vocazione del musulmano ad una vita comunitaria in cui l’individuo svanisce nel tessuto sociale, ed in cui i diritti individuali sono percepiti, e quindi riconosciuti, solo se compatibili col modello di società islamica (i.e. «sottomessa» a Dio). Presupposto essenziale di questo tipo di società è l’esistenza di un forte potere politico garante dell’ortodossia. Alle origini, tale figura era incarnata dal khalîfa (il Califfo), che, allo stesso tempo, era anche l’Amîr al-Mu’minîn (il «Principe dei Credenti»), sulla base, in un primo tempo, di una legittimazione di tipo “contrattuale”, che si estrinsecava nella bay‘a («omaggio alla persona scelta dalla Comunità dei Credenti o dai suoi rappresentanti qualificati ed insieme promessa di obbedienza»), e, successivamente, su base dinastica. Al momento della disgregazione politica della Umma, si ha la proliferazione degli ordinamenti giuridici all’interno del territorio islamico (la c.d. dâr al-Islâm, i.e. «casa dell’Islâm»), e poi la costituzione, a conclusione del processo di decolonizzazione, di entità statuali poco conformi al modello islamico, mutuate dall’esperienza politica occidentale, e quindi sostanzialmente estranee al suo sostrato culturale più profondo. Risultato è un ibrido in cui coesiste una inestricabile commistione di elementi preislamici (veicolati da ataviche consuetudini tuttora più o meno vitali), elementi islamici (presenti nella šarî‘a e relativamente variabili in funzione dell’appartenenza, rispettivamente, all’Islâm sciita, kharigita o sunnita, quest’ultimo articolato nei quattro madhab malikita, hanafita, sciafiita e hanbalita) ed elementi derivanti dall’acculturazione coloniale e post-coloniale (che permeano in prevalenza la legislazione positiva moderna). Tale stratificazione giuridica, presente nel Mondo islamico, non risulta tuttavia omogenea, in quanto ogni ordinamento è costituito dalla risultante delle tre componenti, diversamente combinate tra loro a seconda del Paese, e, all’interno dello stesso Paese, a seconda dell’istituto giuridico. Ne consegue comunque una serie di ordinamenti in cui il sistema delle fonti del diritto è particolarmente complesso e, tuttavia, non sempre percepito come la risultante di questa stratificazione.
Abbiamo così un ventaglio di situazioni diverse, determinate da differenti fattori, di tipo storico, etnico e religioso. La prima importante distinzione è tra Paesi islamici arabi (che rappresentano un quinto della popolazione mondiale di fede musulmana, i.e. circa 200 milioni su oltre un miliardo) e Paesi islamici non arabi. Ulteriore elemento consiste nella presenza di altre comunità religiose, diversamente rilevanti in funzione della loro appartenenza o meno alla c.d. Ahl al-Kitâb, la «Gente del Libro», ossia coloro che sono stati destinatari di Rivelazioni divine (Ebrei e Cristiani, e, per estensione, Zoroastriani ed Hindu). Nella concezione «sciaraitica» del diritto, l’elemento personale, consistente nell’appartenenza alla Umma islamica, costituisce elemento scriminante ai fini dell’applicazione delle norme relative a persona, famiglia e successione. È così consentita la coesistenza di altri Statuti personali rispettosi delle diversità di ordine religioso, sottoposti alla cognizione delle giurisdizioni non islamiche (Tribunali diocesani, rabbinici, etc.), realtà non riscontrabile nella storia della cristianità, per la demonizzazione del “diverso”, i cui diritti (quando nella più fortunata delle ipotesi era “tollerata” la sua esistenza fisica) venivano ignorati o negati. Con l’avvento del modello occidentale di Stato, il diritto vede come suo destinatario non più la persona (consentendo un diverso trattamento a seconda dell’appartenenza religiosa), ma il territorio, elemento di omologazione della comunità insediatavi. Con l’avvento dei nuovi Stati indipendenti , in ossequio alla concezione dell’uguaglianza formale ed astratta propria della borghesia europea post-rivoluzionaria, la giurisdizione viene quasi ovunque unificata e i Tribunali speciali, competenti a conoscere degli Statuti personali, soppressi. La diversità è paradossalmente fatta salva proprio nella misura in cui, almeno nel diritto sostantivo, permangono influssi «sciaraitici».
Si tratta in definitiva di società in cui, come abbiamo sottolineato, il momento religioso e quello politico non sono facilmente distinguibili sia negli individui sia nella comunità, risultando, per così dire, due facce della stessa medaglia. Le Costituzioni di tutti i Paesi arabi, infatti, riconoscono l’Islâm come religione di Stato. Il Sultanato dell’Oman non dispone di una Costituzione, ritenuta in contrasto con la consapevolezza che la Fonte giuridica di rango supremo è il Corano, opera sublime del Legislatore. L’Arabia saudiana, a sua volta, solo nel 1992 si è dotata di una Costituzione, definita «regolamento costituzionale» (al-nizam al-desturi), ritenuta la sua natura regolamentare rispetto alla Legge per eccellenza. D’altra parte, il Codice egiziano del 1948, opera del grande giurista as-Sanhuri, all’art. 1 include espressamente la šarî‘a tra le fonti del diritto, riconoscendo però, rispetto ad essa una posizione di preminenza non solo alla legge dello Stato, ma anche alla consuetudine. Dei Codici ispirati al modello egiziano, alcuni ripetono lo stesso schema, seguendo lo stesso ordine, altri, invece, come, ex. gr., quelli libico ed algerino, pospongono la consuetudine alla shari’a.
Tuttavia, l’assenza di una struttura ecclesiale, di un clero gerarchicamente organizzato, come nei nostri Paesi cattolici, è garanzia di non ingerenza, nei momenti politicamente significativi, di una Chiesa nelle vicende dello Stato.
La concezione «califfale» della sovranità islamica è forse la peculiarità che va più delle altre approfondita nel momento in cui si giudica della maggiore o minore “democraticità” dei regimi islamici, prendendo a parametro di riferimento il modello occidentale dello Stato di diritto. Il Califfo costituiva infatti la guida (imâm) suprema dell’intera Umma islamica e, al pari dell’imâm di una qualsiasi moschea, che ha la funzione di dirigere e coordinare le preghiere dei fedeli, aveva come missione quella di garantire l’edificazione di una società islamica rispettosa dei precetti «sciaraitici». Nel fare questo egli disponeva di ampi poteri comprensivi di quelli legislativo (che però risultava attività di natura amministrativa, quindi regolamentare rispetto all’unica Legge, consistente nella Rivelazione divina contenuta nel Libro), esecutivo e giudiziario. Egli non era tuttavia, al pari del Sovrano di ancien régime, legibus solutus (i.e. esonerato dal rispetto della legge), poiché l’obbligo di obbedienza veniva ipso jure meno in caso di abuso di potere rispetto agli stessi principi «sciaraitici».
Tale esperienza politica contribuisce a determinare quello che potremmo definire «inconscio politico collettivo» che, se da una parte spiega l’istinto comunitario delle società islamiche (con tutti i suoi risvolti che visti con “occhiali occidentali” possono apparire non solo positivi, ma anche negativi), dall’altra ci fa capire la natura sostanzialmente autoritaria e paternalistica, determinante uno spiccato culto del ra’îs di turno, che è dato riscontrare, in misura maggiore o minore, nei regimi dei diversi Paesi islamici, compresi quelli formalmente “democratici”. I diversi Tribunali sedicenti “islamici”, raramente godono, in effetti, di una legittimazione «sciaraitica», che sola può provenire dalla delega (ai dî) dei poteri giudiziari del khalîfa (o la figura che oggi si ritiene equipollente, dopo la soppressione formale del Califfato sancita nel 1924, la quale, a seconda delle diverse situazioni ed opinioni, può oggi essere costituita da un Re, un Presidente della Repubblica, il Capo di una determinata Comunità, Regione o Villaggio, che godano di una sufficiente sovranità). È importante, altresì, sottolineare come non sempre i suddetti “Tribunali” applichino correttamente le norme «sciaraitiche» (vedi, ex. gr., il requisito richiesto per la condanna di adulterio della presenza al fatto di almeno quattro testimoni oculari!).
Possiamo, in conclusione, ravvisare nelle società musulmane la sussistenza di quelle peculiarità “forti” che le caratterizzano e che le rendono diverse e non sempre omologabili alla visione monolitica dell’homo occidentalis che riduttivamente ammette come unico modello di civiltà “superiore” la propria, procedendo con sempre maggiore determinazione sulla strada dell’acculturazione più o meno forzata, soprattutto in un momento storico come il nostro, che vede il fenomeno della c.d. globalizzazione come occasione di penetrazione economica e culturale di Paesi globalizzanti nei confronti di Paesi globalizzati privi di efficaci strumenti di resistenza. La sottrazione, in diversa misura a seconda dei casi, di sovranità rispetto a questi ultimi non avviene, infatti, a vantaggio di un governo mondiale che riconosca, a tutti i popoli e a tutte le culture che di questi sono espressione, pari dignità, ma nella direzione di un mercato che è emanazione delle Potenze globalizzanti.