Elio Miracco
Arbëresh – Premio Naim Frashëri 1995
NAZIONALITÀ ALBANESE E RELIGIONI
L’Albania, nel puzzle balcanico, dove gli Stati
escono con cinquant’anni di ritardo dalla seconda guerra mondiale, non
trova stabilità né una condivisione di valori e di cultura
per la propria identità. Circondata, alle frontiere, caso unico
per uno Stato, da popolazioni di lingua albanese che contrappongono il
loro ethnos a serbi, montenegrini, macedoni e greci, essa attende,
evitando a stento la frammentazione morale. Priva di momenti ideali, il
suo cammino sarà condizionato da interessi extranazionali, europei
o americani, e la sua politica sarà integrata nella pax regionis.
N’è un esempio anche la recente liberazione della Kosova.
La stessa Macedonia, nella morsa della Bulgaria e della
Grecia che contende all’Albania il territorio fino ad Gjirokastër:
per Atene Nord Epiro, e per Tirana Çamëria fino a Gianina.
Pure in questo groviglio balcanico si propone la drammatica situazione
del popolo albanese.
Durante la guerra nell’ex-Jugoslavia, all’asse Belgrado-Atene,
Berisha contrappose la sua presenza all'Organizzazione della Conferenza
Islamica, nel 1992, e un accordo militare con Ankara. Iniziative bilanciate
dalle relazioni con gli organismi comunitari europei, dalla sottoscrizione
del programma, nell’aprile del ’94, di cooperazione militare con la NATO,
dalla richiesta di entrare nel patto atlantico e in funzione anti-serba
dalla concessione agli Stati Uniti della base di Lezhë. La politica
della tana della volpe, citando il romanzo Skënderbeu di Sabri Godo,
presidente del Partito Repubblicano. Una tana con l’uscita di "sicurezza"
per non intrappolarsi in un cul de sac.
Berisha, con una politica di integrazione e partecipazione
agli organismi comunitari, ha sempre sostenuto la vocazione europea dell’Albania,
e lo scrittore Ismail Kadare, pur di tradizione familiare musulmana, nei
suoi interventi rimarca le radici cristiane e quindi europee, precedenti
alla dominazione ottomana, degli schipetari.
Il Paese della Aquile non è ancora terra di guerre
di religioni. "La religione degli albanesi è l’albanesità"
proclamò romanticamente Pashko Vasa, alla vigilia dell’indipendenza
dai Turchi, con uno spirito di tolleranza laica che, sconosciuta ad altri
popoli, ha sempre contraddistinto l’Albania. D’altronde la diversità
di fedi religiose non poteva costituire un riferimento all’identità
nazionale, tra i cui miti fondanti sono gli eroi di frontiera, in lotta
con i greci e con i serbi, e risalenti fino a Teuta, regina degli Illiri,
in guerra coi Romani. Il comunismo costruì la religione del partito-stato,
chiuse chiese e moschee incarcerò i sacerdoti, cancellò la
memoria storica della nazione che per quarantasette anni visse nel culto
di Enver Hoxha e del socialismo, cemento di un’identita virtuale.
Nella ribellione del 1997, oltre agli intrecci di criminalità
e politica, si sono rinsaldati gli interessi economici di un Sud dipendente
dai trecentomila emigrati in Grecia, che lentamente abbracciano la fede
ortodossa. Religione e economia, elementi di riaggregazione della identità,
non più etnica o nazionale ma territoriale, con i Cattolici più
vicini ai Musulmani nella difesa dell’unità nazionale contro i Cristiani
ortodossi del sud, ritenuti da Atene "greci". Significative le parole pronunciate,
il 2 maggio 1993, dall’archimandrita Krisostomo – "la mia espulsione è
stata voluta dai papisti e dai musulmani", provvedimento seguito alle accuse
di Tirana per propaganda di riunificazione dell’Albania del sud alla Grecia.
Ad Atene, per i nuovi assetti territoriali dei Balcani, si parla di avanzata
islamica, e i greci, come i serbi, identificano la nazione con la fede
religiosa: stato=religione. Il pericolo dell’accerchiamento musulmano e
della sua espansione fra Vlorë, Gjirokastër e Sarandë, dove
i minareti in costruzione si concentrano come antenne televisive, per la
chiesa greca, che con i suoi poveri mezzi non riesce ad arginare la concorrenza,
è una realtà. Con questa logica Atene rimpatriò o
impedì l’ingresso in Grecia degli albanesi dal nome musulmano, che
aggiravano l’ostacolo cambiandolo con uno cristiano, confermando così
la storia che li ha visti sempre refrattari alle fedi religiose.
Il dimissionario capo dello Shik, Bashkim Gazidede,
ha parlato di un piano greco del 1991 per impossessarsi della Çamëria;
Berisha di "circoli che dall’ estero destabilizzano la regione", e il premier
Bashkim Fino, nell’incontro, nell’aprile 1997, con gli emigrati albanesi
in Atene, preoccupato ammette: "Questo (il governo di pacificazione) è
l’ultima chance per l’unità nazionale". Dello stesso tenore gli
interventi dei deputati all’Assemblea repubblicana (Kuvendi i Republikës
së Shqipërisë).
Nel sud-est balcanico delle molte etnie, degli scollamenti
culturali, delle instabilità politiche pronte a esplodere anche
per simpatia, chi garantirà il Paese delle Aquile? Non l’Europa,
lenta, incerta e attendista. E l’Islâm? Sulejman Demirel, in passato
dichiarò che in caso di guerra: "i turchi starebbero sulla stessa
barca degli albanesi". Mentre il ministro degli esteri di Ankara, Tansu
Ciller, quando Prodi e l’Europa lanciavano l’ultimatum ai partiti albanesi
di raggiungere un accordo, fece sentire la sua voce: "Ankara non permetterà
a nessuno Stato di intromettersi negli affari interni albanesi". Per gli
islamici l’Albania, dalla mappa religiosa a pelle di leopardo, è
"terra dell’Islâm" e "dar al harb", terra da conquistare. Non più
con la jihad, ma con i petrodollari e le duemila moschee in costruzione.
E può anche accadere che dirigenti del pannelliano Partito radicale
albanese si trovino a fianco dei francescani nel difendere il cattolicesimo.