"METODO", N. 17/2001

Giovanni Armillotta
(Università degli Studî di Pisa – Facoltà di Scienze Politiche)
D.A.I.E.E. E DIRITTI UMANI: ARCHITECTUS FABER OPTIMUS

Organizzato dall’architetto Mitzi Bollani – presidente dell’Associazione italiana per il Design for All Information Exchange Europe – il 17 febbraio 2001 a Piacenza, presso l’Auditorium della Fondazione di Piacenza e Vigevano, si è tenuto il convegno internazionale ‘Evoluzione dell’Ambiente Urbano ed Edilizio per il Rispetto dei Diritti Umani’. La conferenza, ricca di autorevoli presenze nel settore, ha posto all’attenzione accessibilità, sicurezza, salute quali primi requisiti di qualità del design for all per lo sviluppo di un ambiente sostenibile. Si è sottolineato come, nonostante la presenza di leggi in materia di abbattimento delle barriere architettoniche, la qualità edilizia non sia sufficientemente migliorata in modo da garantire a tutti, senza discriminazione, la partecipazione ad ogni attività sociale, culturale ed artistica. Al di là dei problemi complessivi riguardanti l’auspicato accantonamento di lavori di demolizione e costruzione, il rispetto dei diritti umani in ambito abitativo e in termini di risparmio in costi sociali, nonché garanzia di salute e sicurezza in caso di pericolo (incendi, terremoti, ecc.) – l’incontro è stato un importante momento di riflessione sui compiti che l’architettura attuale pone a se stessa nei confronti della storia contemporanea ed i bisogni della gente.
Apprendiamo unanimente ormai la consapevolezza che l’architettura ha acquisito una dimensione sociale; fornendoci un’immagine chiara e insieme complessa di noi stessi, come uomini del presente; che la varietà dei suoi manufatti – dagli oggetti d’uso quotidiano agli ambienti più vasti – tesa dall’inizio ad una moralità egualitaria, democratica, rispettosa dei diritti umani, è connessa ad un’unica volontà di costruzione di un nuovo ambiente umano, come supporto indispensabile ad una migliore qualità della vita.
E al tempo stesso unanime è il disagio di fronte alla compattezza delle ipotesi interpretative che ne hanno definito la configurazione da un secolo a questa parte: le discipline di progetto – l’architettura in senso stretto, il design, l’urbanistica e la pianificazione territoriale – la storia e la storiografia di ognuno di questi ambiti, hanno davvero fatto riferimento ad un’unità di metodo alle varie scale e ad una unità di intenzioni e di ipotesi culturali? Che ne è oggi di tale unità conclamata nel notissimo slogan “dal cucchiaio alla città”? (Muthesius). Che è accaduto di quella etica che contribuiva al processo formativo con una tensione singolarmente internazionale? (Ciò che oggi vuol creare il DAIEE a livello interstatale). Che ne è della complessità e contraddizione che i fatti, gli oggetti e gli avvenimenti del mondo del design, dell’architettura, delle discipline territoriali del nostro secolo hanno trascinato con sé, convivendo – in opposizione o assimilazione – con analoghi episodi della più antica tradizione? Che ne è di quel rapporto tra la storia e la ricca fenomenologia del moderno, così cristallinamente negativo in un primo momento? (Si pensi all’eclettismo architettonico fra le due guerre a ponte fra il razionalismo alla Le Corbusier e l’accademismo piacentiniano dell’E42).
“Rimane comunque valida l’ipotesi di partenza: è ancora tempo di esplorazione e di diffusione al più vasto pubblico dei fatti dell’architettura; è ancor tempo che urge chiarificazioni, effettivo lavoro culturale oltre il chiuso dei recinti ideologici o di una riduttiva pratica professionale; è ancora tempo di dar corpo e materia consistenti allo sforzo interpretativo in atto, che vede al centro il mestiere dell’architetto, la sua pregnanza, i suoi modi di alimentazione” (Maria Antonietta Crippa).
Per cui uno studio di illustrazione architettonica e costruttiva deve avere sempre il suo punto di partenza nella determinazione accurata delle cause permanenti d’ambiente, degli elementi materiali che sono entrati nello sviluppo edificatorio, nell’esame dei modi vari con cui di tali elementi i diversi periodi si sono valsi. Ossia l’edificio reso partecipe dal design for all deve continuare a vivere, non solo per un rispetto alla storia ed all’arte – che non ha da convertirsi “in un semplice feticismo cieco per tutte le vicende del passato” (Gustavo Giovannoni) – bensì per irrobustirsi e completarsi in maniera da non rimanere monco in un nuovo costrutto o per essere deformato da sovrapposizioni inorganiche turbanti l’armonia. Di conseguenza l’ambiente nel suo complesso, resta elemento estrinseco della composizione architettonica. Perché un’opera d’arte o architettonica, non vive orgogliosamente isolata, ma si affaccia sulla via in una serie continua con altre opere da cui riceve riflessi e limitazioni di misure, di colore, di ornato.
Di conseguenza anche se il design for all è necessario solamente per l’elemento x del complesso A, non deve notarsi in guisa di aggiunta/difformità rispetto agli elementi y e z. In altre parole la tecnica, che nelle altre arti è mezzo al servizio del pensiero artistico, nel design for all si trova in un immediato rapporto con lo stesso scopo positivo dell’opera, che è di rendere agevole ed utile ad ognuno il tutto avvalendosi di materiali e procedimenti concreti. Quindi è indispensabile che l’architetto resti solo ed unico nella sua missione, e non confondersi con l’arido positivismo da tecnico della costruzione, oppure con l’amministratore-politico-tuttologo-artista dal capello a larghe falde e dalla cravatta svolazzante, tanto per tacerci in un eufemismo di giovannoniana memoria. “Architetto – come scrive Leon Battista Alberti parafrasando Vitruvio – chiamerò io colui il quale saprà per mezzo di certe e meravigliose ragioni e regole con la mente e con l’animo divisare, e con l’opera recare a fine tutte quelle cose, le quali mediante movimenti di pesi, congiungimenti ed ammassamenti di corpi, si possono con gran dignità accomodare all’uso degli uomini [corsivo di GA]; a far la qual cosa bisogna che egli abbia cognizione di cose ottime ed eccellentissime e che egli possegga fondatamente”.
Certamente le difficoltà del design for all, specialmente ove sia di rinnovamento sul tradizionale sono talvolta enormi. L’architetto deve essere insieme uno storico, un costruttore e un artista; deve conoscere i minimi elementi dell’insieme esistente; deve vagliarli con la cura più grande per trarre fedelmente da essi gli elementi dell’edificato nuovo; deve infine rendersi conto di tutte le molteplici condizioni d’ambiente, di tutte le cause permanenti o occasionali da cui l’opera è risultata, e a quell’ambiente, a quelle cause deve riannodare la propria progettazione. Solo a questo modo un design coscienzioso è possibile; solo quando queste condizioni sono raggiunte può permettersi che si aggiunga o si tolga qualcosa in un’opera architettonica esistente. A questo punto si presenta la vera questione, quella di fiducia. È possibile ottenere un lavoro equilibrato, insieme di analisi e sintesi, scientifico ed artistico? Hanno gli architetti cultura sufficiente per affrontare i vasti problemi del design for all; possono riuscire a spogliarsi della loro personalità e, lasciando il loro tempo di bisogni sociali, tornare al momento in cui quell’opera è stata costruita? Potrà infine corrispondere all’idea l’esecuzione materiale della modifica o dell’innovazione ex nunc? La risposta è positiva: “Basterà applicare i contenuti insiti nel concetto di valore introdotto da Miles negli anni ’40” (Pier Luigi Maffei).
Il periodo architettonico che stiamo vivendo ha una caratteristica singola rispetto alle altre epoche che ci hanno preceduto (il secolo breve): non ha una vera e propria fede politica!