EDITORIALE
Goffredo Fofi
(Critico letterario)
MASS-MEDIA: CHE FARE?
Nota del direttore
A trentanni dalluscita di Mass-media: che fare?, edito da Ombre Rosse, N. 17, Novembre 1976, pp. 76-80, e date le sue estreme attualità e importanza, la direzione di Metodo, con parere favorevole dellAutore, ha deciso la pubblicazione integrale dellarticolo, chera la prefazione al libro (pubblicato successivamente) di Marcello Giacomantonio, Insegnare con gli audiovisivi: metodologie per la didattica, Mazzotta, Milano 1976, 211 pp.
Giovanni Armillotta
È venuto da poco il momento di interrogarsi
davvero seriamente, in Italia, sui mass-media. Fino a oggi, anche con gli slanci,
gli entusiasmi e poi le delusioni del 1968, il freno a una coscienza più acuta
se non più chiara dei problemi che riguardano i media era dato dalla discrepanza
esistente tra lo sviluppo delle forze produttive che, nonostante la crisi, aveva
visto il salto fondamentale del boom dei primi Anni Sessanta, e larretratezza
politica istituzionale, che risentiva ancora, nonostante il centrosinistra,
di tutto il peso del regime democristiano consolidatosi negli Anni Cinquanta.
Forse solo col compromesso storico e con la rottura del monopolio democristiano
sta veramente avvenendo lingresso dellItalia nel numero delle nazioni
tardocapitalistiche, provocando una situazione profondamente nuova e che non
ha ancora trovato nelle nostre file chi sappia adeguatamente interpretarla.
Lo sconcerto del dopo elezioni, la titubanza di fronte ai compiti di una nuova
analisi delle classi, linsicurezza dei gruppi, sono altrettanti segni
di un disorientamento profondo, che ha molte delle sue radici nella impreparazione
teorica (e con teoria sintende anche alla cinese, inchiesta) di una sinistra
rivoluzionaria che sè affidata al perfezionamento e aggiornamento
più culturale che politico della tradizione riformista, alla spontaneità della
risposta e dellinvenzione di breve raggio, mentre ha tenuto in scarsa
considerazione lobbligo di una teoria sul presente, storica e non quotidiana.
Sul piano culturale, nel senso lato degli strumenti danalisi e della capacità
dintervento sulle contraddizioni generali e particolari, del sistema e
nostre, strutturali e antropologiche, dobbiamo scontare unimpreparazione
di lunga data, fatta di schematismi acquisiti e di improvvisazioni più o meno
brillanti. Che non servono, o meglio non bastano, alla elaborazione di risposte
adeguate allampiezza dei progetti e del potere del nemico.
Il segno nuovo è, nel «sistema» italiano, quello del «pluralismo»; in altri
termini. quello di una compromissione nel potere, stavolta radicale, del revisionismo.
Ma essa avviene mentre la borghesia e il suo partito delegato sono tuttaltro
che alla semplice difensiva, e si dotano di un progetto sufficientemente organico
dopo il disorientamento e il disordine della prima metà degli Anni Settanta.
Cercano di trattare da posizioni di forza anche sul piano sociale di un consenso
di massa e di organizzazioni di massa. Agnelli entra nella DC, la DC «entra»
in Comunione e Liberazione, Comunione e Liberazione tenta di entrare tra le
masse impossessandosi degli slogan della partecipazione di base e rovesciandone
oscenamente il segno. E gli esempi potrebbero continuare, potrebbero differenziarsi
e precisarsi. Di fronte a questa offensiva, il revisionismo, in una non-complessa
logica di infiltrazione e difensiva, tratta concedendo e talora svendendo, e
va precisando sempre di più la sua natura neosocialdemocratica. La nuova sinistra
assiste, si direbbe per il momento quasi impotente, a questi processi e a quello
contemporaneo dei pericoli di disaggregazione di un «movimento» che non trova
nelle sue diverse componenti né la indispensabile solidarietà né
la indispensabile «scienza».
Le società tardo-capitalistiche hanno bisogno di un libero gioco di informazioni;
che renda conto delle loro interne componenti nel loro continuo riequilibrarsi,
che venga da e stimoli lo sviluppo della peculiare e sfaccettatissima
industria dei media, e che permetta comunque un più raffinato controllo delle
coscienze reso nei suoi meccanismi più complesso dalla crescente complessità
della differenziazione (e disgregazione) sociale. La trasformazione è stata
lenta: dalla informazione ristretta alla classe degli «abbienti» dellItalia
liberale, all«unica proposta di vendita» del fascismo, alla manomissione
cattolica e democristiana del dopoguerra, alle aperture controllate del miracolo
economico, e infine, oggi, alla lottizzazione, a vari livelli, tra i vari poteri.
Ma il dato emergente di questultima fase è certamente quello della trasformazione
dellindustria della coscienza in un potere in progressiva crescita corporativa.
Stampa, radio, televisione, pubblicità, editoria, cinema, canzone e parzialmente
teatro con forti distinzioni interne, ma probabilmente destinate a un
equilibrio progressivo sono veramente diventati un «quarto potere» che
tende a conquistare spazi di autonomia (pur tuttavia corporativa) nei confronti
dei suoi stessi padroni. La corporazione dei giornalisti, ad esempio, non è
mai stata così vasta e così potente come oggi, in grado di influire a tal punto
nel dibattito e nelle scelte politico-istituzionali con ogni mezzo (pensiamo,
caso estremo, alle guerre tra «servizi segreti» che partono dallinterno
di certi settimanali) al servizio spesso del sistema più che del singolo padrone.
I gruppi di potere compresi quelli della sinistra si danno i loro
organi di propaganda e di pressione, i cui membri (per ora nellambito
del centro, centrodestra e centrosinistra padronale) si coalizzano in modo diretto
o indiretto e pongono le loro condizioni, rimescolano i loro giochi confusi.
Il sistema è sottoposto per definizione a continui riassestamenti, per le difficoltà
inerenti ai suoi contrasti interni e per quelle che gli vengono da un proletariato
che non demorde, e i mass-media servono contemporaneamente a esprimere
i contrasti interni e a fronteggiare i radicali interessi proletari cercando
di ricomporli in continuazione in una norma accettabile: fingendosi che il proletariato
sia weberianamente una delle molte componenti e uno dei molti poteri che del
sistema fanno parte (e lo sono molte sue rappresentanze istituzionali), e non
il contro-potere e lalternativa al sistema.
Lindustria della coscienza si differenzia per motivi di mercato e per
divisione di campi di battaglia. Gioca su più fronti, dal settimanale pornografico
alla rivista culturale passando per LEspresso. Tende a non
lasciare campi scoperti e, se può, a far concorrenza addirittura agli organi
rivoluzionari sul loro stesso terreno (pensiamo a certi apporti de la
Repubblica). Al suo centro, che è per intenderci quello degli organi delle
grandi mediazioni programmate, e pensiamo come caso esemplare alle evoluzioni
e al presente del Corriere della Sera, il pluralismo svela con più
chiarezza la sua unitarietà di fondo. La figura che domina su questo piano di
«aperture», in variabili controllate, è quella dell«esperto in universalità».
Il e la giornalista, il romanziere, il critico, il poeta, leconomista,
il politico ecc., diventano tutti sociologi e filosofi, mentre i sociologi e
i filosofi diventano giornalisti. Da qualsiasi punto si parta si giunge allo
stesso punto, dove le contraddizioni tra personalità culturali di varia scuola
e formazione e tendenza si ricompongono in una stessa melma vischiosa la cui
lezione ultima è sempre la stessa. In sostanza, quella di affermare le
difficoltà del presente dentro un «destino» che tutti sovrasta e che non
è contrastabile, per cui lo stato presente delle cose è lunico possibile,
pur se ad alcuni pare orrendo (e a costoro più orrendo appare e più si fa metafisico).
Ogni lamentazione è ammessa, purché concorra a dimostrare che non può esistere
un altro stato delle cose, e che lunica possibile alternativa è
limar meglio il pluralismo. Nuovi e vecchi cani da guardia del sistema, gli
intellettuali si svendono massicciamente nellillusione di unautonomia
e di un potere. E sullaltra relativa sponda, quella del revisionismo,
si accetta egualmente di tutto (lo scambio di «esperti» è sempre più frequente)
in una logica dove però domina un «buon senso» progressista, destinato a diventare
vieppiù repressivo nei confronti dei bisogni delle masse non riconducibili nel
suo progetto di compromesso.
Il pluralismo lascia spazi, può e deve permettere che parlino anche i rappresentanti
culturali dell«estremismo». Il progresso tecnico dei mass-media fa sì
che di alcuni di essi si possano impadronire anche le minoranze. Ma, per occupare
questi spazi e utilizzarli a fini che non siano il mero ingresso nel quadro
secondario del potere e la proposta di nuove variabili accolte in quanto castratrici
della forza del nuovo, occorrono non solo solidarietà «morale» ma soprattutto
«spalle coperte». Queste ultime non sempre ci sono e dipendono dalla forza organizzativa
di una linea di cui si fa parte e che si vuoi contribuire ad affermare, dipendono,
a esser più chiari ancora, dalle organizzazioni politiche a cui si richiama,
dal loro radicamento nelle masse, dalla loro lungimiranza politico-culturale.
(E non va precisato, dalla loro «politica culturale», ma dalla globalità
del loro intervento: non si tratta di resuscitare fantasmi terzinternazionalisti
di aberranti «commissioni culturali» buone solo a stabilire alleanze con la
categoria degli intellettuali in unottica di «compagni di strada»; la
cultura è in tutto, e la politica culturale di unorganizzazione la fanno
la commissione operaia o quella femminile, quella scolastica e così via). Oggi
il sostegno che le organizzazioni rivoluzionarie danno allelaborazione
delluso «corretto» dei media, o alla partecipazione agli organi del pluralismo
culturale (stampa, tv, cinema ecc.) è piuttosto incerto e scadente.
Anche il contributo teorico dei singoli compagni è in generale assai scarso.
Non esistono elaborazioni allaltezza della situazione, e finisce così
che ogni scelta diventa individuale o di piccolo gruppo. Sul piano delliniziativa
diretta nelluso alternativo dei media, dopo un fiorire di documenti post
Sessantotto, e col fallimento parziale di alcuni tentativi di allora (il cinema
militante, il videotape...), i testi che oggi circolano sono poveri, ripetitivi,
velleitari, oscillanti tra il tecnicismo e lastrazione. Sul piano dellinserimento
nei media del sistema per proporvi un discorso altro, la situazione è ancora
peggiore, e non resta al singolo che la sua privata forza morale e di discernimento
nella scelta di starci, dapprima, e poi nel modo di operarvi. Si pensi a tanti
compagni del dopo-sessantotto finiti nelle case editrici, nella TV, e soprattutto
nei giornali, inizialmente pieni di grandi volontà e pian piano, per isolamento,
fragilità, e mancanza di una chiarezza che non sapevano dove pescare, inglobati
smortamente nei condizionamenti e negli autocondizionamenti... A sinistra, dunque,
ha regnato in questo campo unambiguità assai grave, divisa in sostanza
in due posizioni discutibili: il moralismo di fronte ai media, o lentrismo-opportunismo
individuale o di gruppo.
La «nuova sinistra», scrive Enzensberger in Palaver, «Ha ridotto
lo sviluppo dei mezzi di comunicazione di massa a un unico concetto: quello
della manipolazione», e cioè alla denuncia-demistificazione della funzione e
delloperato dei media astratta dalle loro possibilità duso. «La
paura di toccare la merda è un lusso che ad esempio chi lavora alle fognature
non può senzaltro permettersi», aggiunge Enzensberger. Laccusa è
fondata, ma è anche vero che modi obbligati di «toccare la merda» non richiedono
il grado di corresponsabilizzazione e compromissione che i media del sistema
impongono. Il moralismo ha dunque avuto e ha una sua ragion dessere, in
assenza dei sostegni di cui si diceva.
Il discorso è più semplice per quei mezzi che permettono un uso immediatamente
diverso, gestibile cioè per piccoli gruppi di base senza le condizioni dei
grandi canali e dei grandi mezzi. In questo caso si sono invece alleati un volontarismo
senza molte radici nei confronti dei nuovi media, da parte di piccoli gruppi,
e un ricorso a mezzi stantii, assolutamente non allaltezza delle possibilità
reali e delle contraddizioni reali. Tipico esempio quello ancora ricordato
da Enzensberger degli studenti francesi del Maggio che hanno occupato lOdeon
invece che la radio-rv, e hanno volantinato alle masse con i «legni» della Scuola
di belle arti. Ma basterebbe vedere la pratica delle nostre organizzazioni perché
gli esempi si allunghino e varino. Il risultato è lincertezza attuale,
tra velleità e controspinte, tra moralismo e opportunismi.
Si sono bensì affermati dei principi. La discussione sulle differenze tra informazione,
controinformazione e comunicazione è stata imperante e, crediamo, tuttora valida.
Lesperienza delle radio libere ha confermato la differenza tra luso
tradizionale (manipolatorio) dei media, e il loro uso alternativo di scambio
e comunicazione tra ricevente e trasmittente, e a volte anche tra gruppi rice-trasmittenti.
Ma siamo ancora molto lontani da una chiarificazione approfondita: lunica
a poter permettere di «toccare la merda» avendone in cambio risultati utili
non al singolo ma alla classe, nel caso delle iniziative alternative, a poterne
cogliere tutta la novità e tutta lambiguità per servirsene in modo adeguato
al maturare delle situazioni e alle necessità della lotta.
Nellattesa di questa chiarificazione cui devono concorrere gli interessati
in un dibattito meno approssimato e immediastico, meno empirico di quanto oggi
non avvenga, diventa essenziale cominciare a diffondere la conoscenza dei media
fuori della cerchia specialistica, onde evitare per lappunto che il dibattito
resti privilegio di gruppi ristretti di intellettuali e di dilettanti.
Ogni prefazione rischia di diventare una sovrapposizione al testo, e questa
non sfugge alla regola. Ma proprio perché il libro che qui si presenta vuole
essere un approccio «pedagogico» alluso dei media da parte dei loro destinatari,
perché vuole aiutare a sconvolgere la logica del trasmittente e del ricevente,
ci è sembrato valido arrivare al libro attraverso lindicazione e il ricapitolo
del vasto e confuso sfondo su cui queste esperienze si collocano, e di cui devono
avere dialetticamente coscienza. La funzione principale di Insegnare con
gli audiovisivi è quella di mettere in grado chi opera nella scuola o in
qualsiasi altro ambito di animazione sociale di impossessarsi di alcune conoscenze
tecniche e «linguistiche». E ciò facendo, di smitizzare i media, di accostarne
la pratica e la problematica al maggior numero possibile di persone, di fare
di questa conoscenza pratica un patrimonio utile alle masse. Dunque anche di
permettere che la riflessione teorica successiva diventi frutto di una riflessione
che nasce dalla realtà delle esperienze fatte. Di rendere in tal modo più agguerrita
la «base» e rendere più concreta e «politica» la ricerca delle soluzioni.