"METODO", N. 18/2002

Francesco Di Noto
(Matematico – Premio Archivio di Documentazione Storica della Ricerca Psichica, Bologna 1994)
ARCHEOLOGIA SPAZIALE E UFOLOGIA

L’ufologia si basa sulla raccolta e l’analisi delle testimonianze di chi ha avvistato un UFO in cielo o, ancora meglio, a terra nei cosiddetti atterraggi, con o senza la presenza di forme viventi, piccoli esseri di forma umana; e con eventuali contatti, normali o telepatici, con questi esseri (gli incontri ravvicinati di terzo tipo, o IR3). Altri elementi di studio sono le fotografie, i filmati, che non sempre sono autentici, ma frutto di trucchi e manipolazioni fotografiche.
Questo, nel presente.
Il passato, invece, ci ha lasciato leggende di contatti extraterrestri con gli uomini (gli Oannes in Mesopotamia tra gli Assiri, il “Carro di fuoco” con gli Ebrei, i contatti con i Dogon e le informazioni che essi hanno da secoli sulla stella Sirio B e la sua compagna invisibile che è pesantissima, ecc.); e, oltre a queste, ci hanno lasciato anche monumenti e manufatti che però sono stati probabilmente costruiti dagli uomini con i loro aiuti ed insegnamenti, e alcuni di essi sembrano essere collegati all’astronomia come le piramidi, o alle stagioni come Stonehenge; o a possibili punti di riferimento chiaramente visibili dall’alto, come le famose piste di Nazca a forme di uccelli, ecc., in Sud America (utili per l’atterraggio di antichi UFO?).
Tutti questi siti misteriosi, monumenti megalitici ecc. sono oggetto di studio dell’archeologia spaziale, il cui scopo è quello di documentare eventuali antichi contatti tra alieni e umanità, a sostegno dell’ufologia moderna, dando luogo all’idea di una continuità della possibile attenzione “extraterrestre” per il nostro pianeta e la nostra civiltà, pur variandone i metodi. Contatti stabili in passato, con aiuti e insegnamenti vari, rapide apparizioni di UFO nel presente, pur se con qualche presunta avaria e impatto al suolo (UFO - crash) con corpi umanoidi poi analizzati. Si pensi al caso Roswell e ai filmati di Santilli diffusi qualche anno fa, con le autopsie dell’ET trovato nell’UFO precipitato, e le relative polemiche sulla loro autenticità.
I motivi di tale eventuale cambiamento (fine dei contatti diretti, e quindi solo avvistamenti in cielo, terra e mare) non ci sono molto chiari, ma sembrano legati al nostro progresso tecnico; sul quale non vorrebbero né potrebbero interferire per motivi etici. D’altro canto, sembrano esserci più razze che ci osservano, tra cui i “grigi”, aggressivi e ritenuti responsabili dei rapimenti e degli esperimenti genetici di “ibridazione” per fortificare la loro razza in decadenza, con il nostro DNA, da loro ritenuto più vitale; ma queste sono ipotesi ancora tutte da dimostrare, e basate sullo studio dei rapiti o “addotti”.
Ma torniamo al passato, e all’archeologia. Ora consideriamo un po’ il sito Stonehenge, in Inghilterra. Premettiamo che Stonehenge è un circolo di megaliti (gigantesche pietre) e che è stato interpretato come un colossale calendario, in base ai raggi di luce che i varchi tra le pietre lasciano passare nei solstizi ecc.
Altra interpretazione legata alla religione, allo spazio e a civiltà spaziali, è riportata nel libro di Raymond Drake Gli extraterrestri e le civiltà scomparse, Armenia, Milano, 1974, pag. 147:

I teologi e i mitologi sono d’accordo nel dire che la prima religione fu quella dell’adorazione del Sole; accomunata con divinità stellari vi erano pure i culti della fertilità simboleggianti da raffigurazioni del fallo, dello yoni [vagina, ndA] e del serpente. Gli archeologi ritrovano l’antica adorazione del Sole sia in Amazzonia, che in Africa o nel Giappone, residui della religione cosmica professata dagli spaziali. Si crede generalmente che i blocchi monolitici o le torri ritrovate in ogni parte del mondo rappresentino il fallo maschile e che i circoli di pietre [come Stonehenge, ndA] o templi circolari rappresentino la yoni femminile, simboli, questi, del più antico culto della fertilità; ma adesso sorge il dubbio che l’obelisco debba essere veramente inteso come raffigurante un razzo, o nave spaziale, e il circolo, un disco volante. Questa potrebbe essere una nuova interpretazione, più plausibile di quanto appaia a prima vista. Si diceva che il famoso tempio di Salomone rappresentasse lo schema di una nave spaziale vista da Davide. Letteralmente, la casa del Signore “La dimora dell’uomo spaziale” (non è citata la fonte di questa traduzione dall’ebraico), e gli israeliti apparirebbero come una nave dello spazio. Forse i nostri archeologi sbagliano quando ritengono che i simboli dell’età della pietra si riferiscono al fallo e allo yoni. E se, invece, questi simboli rappresentassero all’evidenza le navi spaziali e gli esseri luminosi provenienti dalle stelle?

Probabilmente, come sempre, la verità si situa nel mezzo, nel senso che le ipotesi sarebbero compatibili tra loro, e potrebbero spiegare alcuni casi. Ma quali? Questa distinzione sarebbe compito degli attuali e futuri studi di archeologia spaziale in base a nuovi ritrovamenti e a nuove interpretazioni. Su Stonehenge, l’Autore ritorna a pag. 156:

simboli cosmici su manufatti trovati nei tumuli [di pietre, ndA] sembrerebbero di provenienza MU. Può darsi che i tumuli siano stati elevati come fortificazioni contro le razze selvagge che minacciavano dal nord; molti avevano una disposizione serpeggiante, simile a quelli nei pressi di Stonehenge, in Bretagna. Il culto del serpente ha un grande significato religioso ed è anche associato con gli uomini-serpente, esseri spaziali di grande saggezza [...].

Nell’ufologia moderna, si discute anche di razze ET evolutesi da insetti, come quella dei famigerati “grigi”, o da rettili, tipo quella della serie televisiva “Visitors” (di stampo nazistoide). Sulla terra abbiamo una razza intelligente, “mammifera” ma con antenati... rettili, dei quali però, a differenza dei rettiloidi ET antichi e moderni, non hanno conservato nulla del loro aspetto; un’altra razza terrestre mammifera e intelligente potrebbe essere quella dei delfini, il cui habitat marino ha impedito loro una evoluzione tecnologica, ma non etica e morale: sono amici dell’uomo – non ricambiati – e soprattutto dei bambini, con i quali amano giocare ove è possibile; spiagge, delfinari, piscine. Anche gli ET tramortiscono i terrestri, come i delfini fanno con gli squali, loro nemici, attraverso una scarica di onde elettromagnetiche, che disorienta e immobilizza temporaneamente la vittima. Potrebbe essere lo stesso meccanismo comune a ET e i delfini, e quindi una discendenza dei primi da esseri di tipo delfinoide? Per esempio, dagli antichi e anfibi Oannes, metà pesci e metà umanoidi, che visitarono gli Assiri? Sono tanti i collegamenti e le osservazioni che andrebbero approfonditi, soprattutto dal punto di vista esobiologico.
Un altro argomento del problema UFO, altrettanto interessante di quello archeo-spaziale, è che si individuano aspetti comuni fra i suddetti Oannes con alcune specie ET di origine delfinoide, entrambe con comune habitat acquatico o anfibio. Ne riparleremo in seguito.
Per quanto riguarda l’aspetto ufologico archeo-spaziale, nella seguente trattazione si parlerà degli eventuali resti di Atlantide nel triangolo di mare caraibico più famoso come ‘Triangolo delle Bermude’ dove sono scomparsi in passato navi e aerei (ora molto meno in quanto la sua “fama” consiglia a tutti di girare alla larga...). Mi rifaccio al recente libro di Michael Preisinger Il Triangolo delle Bermude. Una spedizione spiega il mistero dell’“arcipelago maledetto”, PIEMME, Casale Monferrato (AL), 1999. Citerò l’intero capitolo quarto Visitatori nelle antiche isole atlantiche? e poi parte del capitolo quinto che parla dell’alta frequenza di avvistamenti UFO in quella zona, spiegandola con la documentata ipotesi della possibile presenza di “porte verso alti mondi” intendendo per porte dei varchi spazio-temporali tipo wormhole che permetterebbero (agli UFO) di percorrere istantaneamente distanze enormi nello spazio cosmico; utilizzando, in altre parole, il teletrasporto consentito da questi varchi, artificiali o naturali che fossero (l’Autore propende per la prima ipotesi, come un residuo, un ricordo tecnologico degli Atlantidei, e degli extraterrestri che la visitarono); ma che a tratti, sembrano funzionare ancora oggi, facendo sparire navi e aerei ma anche “apparire” gli UFO, che li utilizzerebbero invece coscientemente come portali dimensionali per teletrasporto magnetico-gravitazionale... Noi terrestri siamo invece ancora “fermi” al teletrasporto fantascientifico di Star Trek e simili, mentre in campo scientifico e sperimentale restiamo al “semplice” teletrasporto quantistico con i fotoni; e si pensa di utilizzarne gli sviluppi futuri per costruire computer quantici, molto più potenti e veloci degli attuali computer elettronici.
Sui teletrasporti magnetico e gravitazionale (che comportano energia negativa, tunnel iperspaziali, velocità maggiori di c, possibili strutture cosmiche di tipo Møbius, rotazioni di campi magnetici o gravitazionali, ecc.) abbiamo ancora le idee... poco chiare. Personalmente sto raccogliendo del materiale teorico per poi analizzarlo e arrivare eventualmente a qualche ipotesi sperimentale, ma è ancora presto.
L’ipotesi di Preisinger è comunque buona perché si ricollega ad altre questioni e casi di teletrasporto ufologico, e potrebbe portare, se bene approfondita, ad una tecnologia terrestre di teletrasporto planetario e spaziale. Si vedrà.
Intanto, annotiamo cosa scrive Preisinger nei capitoli terzo, quarto e quinto del suo libro, utile a conoscere meglio la relazione tra magnetismo (forti anomalie geomagnetiche nella zona studiata) e teletrasporto, e che potrebbe essere la stessa che nell’esperimento Filadelfia (teletrasporto accidentale, sembra, di una nave da guerra nel 1943) e nell’esperimento Ferlini (G.B. Ferlini, La barriera magnetica, Edizioni Mediterranee, Roma, 1986) con elettromagneti: teletrasporto-sparizione di una maschera antigas, e – brevemente – anche dello stesso Ferlini; il cui esperimento potrebbe benissimo essere rispolverato in qualche laboratorio universitario o privato di ricerca, a costi ragionevoli. Prima del capitolo quarto, vorrei riportare anche il capitolo terzo Uno sguardo in altri mondi dove l’Autore riassume le sue conclusioni.

...sollevò la bimbetta in braccio e insieme volarono via nello splendore e nella gioia, in alto, sempre più in alto; e là non c’erano né freddo, né fame, né paura... (Hans Christian Andersen, pag. 269)

 

Ieri, oggi, domani (qui e là)

Che su altri pianeti di altre galassie ci sia vita è, statisticamente, molto probabile, e comunque assolutamente logico. Che si tratti di vita intelligente è cosa che possiamo supporre quasi con certezza. Del resto, nella sola via lattea circa il 10 per cento delle stelle è contornato da pianeti sui quali può esistere la vita, per un totale di ben 15 miliardi! Secondo la stima di Isaac Asimov, le civiltà tecnologiche che si sono sviluppate su queste “terre” ammonterebbero a circa 530.000. Che sul nostro pianeta ci sia vita è certo. Che si tratti di vita intelligente vogliamo sperarlo; l’astronomo Sebastian von Hoerner calcola, come soglia critica per la sopravvivenza di una civiltà, quella in cui raggiunge i 4.500 anni circa: se riesce a superare quel momento, allora è così stabile da potere durare anche milioni di anni. E qui, naturalmente, viene subito da chiedersi quando dobbiamo situare l’inizio della nostra civiltà. Se prendiamo a riferimento le prime grandi civiltà monumentali storiche dell’Egitto e della Mesopotamia, vuol dire che siamo molto vicini alla soglia critica. Se, invece, calcoliamo a partire dall’epoca di Atlantide, possiamo ritenere di avercela fatta. Per ragionare sulla provenienza di eventuali visitatori abbiamo, dunque, due diverse possibilità: o si tratta di forme di vita diverse, che arrivano da altre galassie o altri universi attraverso delle tarlature “spaziali”, oppure sono uomini come voi e come me, che vengono in questo momento storico dal nostro stesso futuro o dal nostro passato, attraverso delle tarlature “temporali”. Invece che extraterrestri, perciò, possiamo chiamarli semplicemente visitatori, indipendentemente dalla loro provenienza. Così come non sappiamo dove, di preciso, lo spettro della nonna porti la bimbetta mezza assiderata della fiaba di Andersen, non sappiamo nemmeno, per ora, dove andremo a finire il giorno in cui viaggeremo attraverso le tarlature. Proviamo un attimo a riflettere in maniera concreta, a partire dai dati di fatto di cui disponiamo, e vediamo se ci è possibile arrivare a capire dove potremmo giungere e, di riflesso, quale potrebbe essere la provenienza dei nostri visitatori. Forse giungeremmo in ben altre dimensioni rispetto alle nostre? Nella quinta, sesta o chissà quante altre ne esistono? Per poterlo ipotizzare con una certa ragionevolezza, dovremmo almeno sapere per certo che esistono davvero delle dimensioni che ancora non conosciamo. E invece non lo sappiamo affatto! A questo proposito sono state formulate diverse teorie, per esempio da parte di Burkhard Heim e Paul Davies, ma a differenza di quanto accade per le teorie delle tarlature, queste sono ancora molto controverse tra gli stessi esperti di fisica. Perciò, se l’esistenza di altre dimensioni non è dimostrabile su un piano teorico, sarà molto meglio lasciare perdere ogni congettura su come possano essere queste dimensioni a noi ignote. D’altronde, sull’esatta provenienza dei visitatori non abbiamo nessun genere di prova che può risultare anche solo grosso modo “ragionevole”.

 

Fatti, fatti, fatti!

Riepiloghiamo, dunque, cosa siamo riusciti a scoprire, fin qua, sulla base di fatti convincenti:

- esiste un super-spazio, in cui non c’è né tempo né spazio, che collega qualunque punto di qualunque dimensione con qualunque altro punto di qualunque altra dimensione;
- esistono delle tarlature che, come punti di collegamento, permettono di entrare nel super-spazio e di riuscirne in un qualunque punto di qualunque dimensione;
- siccome nel super-spazio non c’è tempo, il viaggio ha la sola durata del tempo necessario per andare dalla partenza all’ingresso della tarlatura e dalla sua uscita all’atterraggio;
- siccome nel super-spazio non esistono distanze, nello stesso tempo sempre equivalente a zero è possibile raggiungere qualunque punto, indipendentemente dalla distanza che c’è tra le singole dimensioni;
- in conclusione, senza perdere nemmeno un attimo di tempo, per mezzo delle tarlature e del super-spazio è possibile raggiungere qualunque punto di qualunque dimensione, indipendentemente dalla distanza spaziale o temporale a cui si trova: in pratica possiamo compiere viaggi nel tempo e nello spazio, fin nei posti più remoti dell’universo, possiamo andare ovunque!

Ora, mantenendo quest’ottica, torniamo a riepilogare i fatti e le spiegazioni forniti fin qua, per vedere cosa possiamo dedurne.

 

VISITATORI NELLE ISOLE ATLANTICHE?

Reparto scavi

Ritorniamo prima di tutto al Atlantide, passando ancora una volta per l’antico Egitto. Citando i rotoli di papiro della biblioteca di Sais, Crizia parla di costruzioni davvero imponenti. Recuperiamo i numeri e calcoliamo, per esempio, il volume di terra che deve essere stato spostato per scavare quel complesso sistema di fossati e canali. Iniziamo dal fossato più interno che circonda il centro abitato di Atlantide. Sulla base delle indicazioni fornite da Platone, ha un diametro interno di un chilometro, una larghezza di 200 metri e una profondità di 30. Fatti i dovuti calcoli, arriviamo a circa 22 milioni di metri cubi. Il fossato centrale ha un diametro interno di 2,2 chilometri ed è largo 400 metri. Presumendo anche qui una profondità di 30 metri, arriviamo a un volume di terra scavata pari a circa 98 milioni di metri cubi. Passiamo all’ultimo fossato attorno alla città, che ha diametro interno di 4,2 chilometri ed esterno di 5,4. Se anche qui la profondità è di 30 metri, i calcoli ci danno circa 270 milioni di metri cubi. Tralasciamo i piccoli scavi di collegamento che attraversano i terrapieni che, in proporzione, incidono piuttosto poco sul totale, e calcoliamo invece il volume del canale che porta al mare. Essendo questo lungo 10 chilometri, largo 100 metri e profondo 30, arriviamo ad altri 30 milioni di metri cubi di terra scavata, per un subtotale, fin qua, di 420. Passiamo quindi al canale anulare che circonda la pianura. Come abbiamo sentito, si tratta di un’opera di ben 2.000 chilometri di lunghezza, 200 metri di larghezza e 30 metri di profondità, il che fa altri 12 miliardi di metri cubi di terra scavata. Aggiungendoci un volume di 3,5 miliardi di metri cubi - calcolato per i 29 canali minori che attraversano la pianura da nord a sud, con una lunghezza media di 400 chilometri, e per i 19 che la tagliano da est a ovest, lunghi mediamente 600 chilometri, tutti con la larghezza di 30 metri e profondità che potremmo ipotizzare di 5 metri - arriviamo infine a un totale complessivo di circa 16 miliardi di metri cubi o, detto altrimenti, 16 chilometri cubi di terra scavata e spostata! una cifra esorbitante: qualcosa come una montagna prismatica lunga 4 chilometri, larga altrettanto e alta 1! Al confronto, anche le maggiori miniere dei nostri tempi appaiono minuscole, e perfino il Reno risulta solo un fiumiciattolo. Opere di scavo così mastodontiche non sono realizzabili nemmeno con i normali mezzi tecnici del nostro tempo, figuriamoci con quelli dell’epoca di Crizia. Cosa possiamo dedurne? Che Crizia racconta al suo ospite semplicemente delle frottole, frottole tanto grandi da mettere abbondantemente in ombra perfino il barone di Münchhausen? Non possiamo escluderlo completamente, è chiaro. Però abbiamo sufficienti indizi che ci fanno pensare diversamente. Tanto per cominciare, Crizia sarebbe poco scaltro a servire al suo ospite fandonie tanto esagerate, non foss’altro per il fatto che Solone è un uomo di stato molto esperto, e per giunta una delle persone più intelligenti del suo tempo. Sentendosi raccontare qualcosa di tanto spudorato, il legislatore greco dovrebbe ritenere Crizia del tutto matto; se non lo fa, non può che essere in virtù dei documenti della biblioteca che evidentemente Crizia gli mostra. Pare l’unico motivo valido per indurre un politico pragmatico come Solone non solo a credere ma anche a riferire a sua volta numeri apparentemente tanto incredibili. A ben vedere, la problematica del caso assomiglia molto a quella degli avvistamenti degli UFO, che iniziano ad essere presi sul serio tutt’a un tratto, quando tra i testimoni oculari si leva la voce di una persona autorevole: l’ex presidente statunitense Jimmy Carter. Ma proseguiamo con l’esame del testo su Atlantide. Nemmeno lo stesso Platone, che ci riferisce il dialogo, è uomo che passa per un contafrottole: perciò possiamo dare per scontato che sia perfettamente conscio della grandezza immane delle opere descritte. Partiamo dunque dal presupposto che i testimoni siano persone degne di fede, e che veramente siano esistite costruzioni più o meno in quell’ordine di grandezza. Per quale motivo oggi non ne troviamo più i resti, l’abbiamo già spiegato: la roccia tenera con cui erano costruite quelle opere è stata erosa dal mare e i sedimenti hanno riempito i canali. Infatti, anche se si tratta di dimensioni veramente esorbitanti, da un punto di vista geologico 16 chilometri cubi sono solo un buchetto. Un’ulteriore tesi che permette di documentare la fine di Atlantide può essere ricercata nelle costellazioni astronomiche. In base ai calcoli fatti dall’ingegnere Otto H. Muck, a causa della molteplice congiunzione tra il sole, venere, la terra e la luna, il 5 giugno dell’anno 8498 a.C. sull’asteroide Apollo hanno agito forze gravitazionali molto più potenti dell’usuale. In quel giorno estivo di tanti anni fa, il pianetino invece di limitarsi a incrociare la traiettoria della terra, come spesso fanno gli asteroidi, giunse proprio a collisione con il nostro pianeta. E per giunta nel bel mezzo della fiorente civiltà di Atlantide. La collisione è talmente forte che ne risente anche la terra nel suo complesso, tanto che il suo asse si sposta di ben 25 gradi. Se queste diverse ipotesi spiegano la sparizione di quella terra mitica, resta ancora da capire in che modo la civiltà di Atlantide ha potuto realizzare delle costruzioni così incredibili. Quali macchinari ha utilizzato? E la tecnica che ha impiegato come era stata messa a punto? Proveniva, per caso, da un aiuto esterno? E se si, da dove e da chi?

Astronauti divini o pronipoti?

Le domande sono davvero tante, ma cerchiamo di dare almeno qualche risposta. C’è un autore ormai famoso in tutto il mondo per le nuove tesi che ha formulato a questo proposito: Erich von Daniken. Come quasi tutti sanno, una delle sue asserzioni principali vuole che, molte migliaia di anni fa, astronauti che provenivano da altri pianeti siano arrivati sulla terra per aiutare l’umanità a iniziare la sua evoluzione. Detto per inciso, a causa delle sue nuove teorie, ma forse ancor più per via del notevole successo editoriale dei suoi libri, von Daniken è stato attaccato più e più volte, in particolare dal già citato signor Randi. Davvero dobbiamo ritenere, come vorrebbe il nostro caro “scettico”, che la teoria di antichi astronauti sia così fuorviante da non meritare quasi nessun interesse e nessuna discussione seria tra studiosi coscienziosi? Possibile, si chiede infatti lo “scettico”, che i nostri antenati fossero davvero così “stupidi” da avere bisogno di un aiuto esterno per arrivare a inventare la ruota? Per controbattere il suo “scetticismo”, possiamo replicare a nostra volta con una domanda, chiedendo perché mai quegli “stupidi” esemplari della specie Homo sapiens hanno impiegato così tanto a inventarla. Al confronto con il lasso di tempo che intercorre tra la comparsa della nostra specie e l’invenzione della ruota, quello che è stato necessario per elaborare i computer e per iniziare i viaggi spaziali è solo un breve attimo...Perché, allora, improvvisamente, il progresso tecnico si è trasformato in una rivoluzione tecnica, tanto che la velocità con cui compaiono le novità continua in un crescendo sempre più vertiginoso? Non è proprio pensabile che, per partire in questa escalation, noi uomini possiamo avere avuto bisogno di una piccola spinta “esterna”? Gli esempi di costruzioni, o altri oggetti, che possono far pensare a un influsso di forze “straordinarie” sul mondo preistorico dei nostri antenati non si contano quasi: per esempio abbiamo le costruzioni in onore degli dei a Tulum, Chichen-Itza e Teotihuacàcan nel Messico, a Tikal nel Guatemala, a Chavìn de Huantar in Perù, a Prambanan in Indonesia e a Kanchipuram in India; poi abbiamo i vari megaliti e cerchi di pietre in Scozia, Inghilterra, Bretagna, Malta, i giganteschi disegni a terra del Perù e quelli formati da collinette nell’America del nord. E si potrebbe continuare ancora per molto: più avanzano gli studi archeologici e più troviamo esempi calzanti. Ma gli influssi “esterni” non si fanno sentire solo nel mondo materiale: ne troviamo traccia anche nelle tradizioni culturali, e nei racconti popolari. Von Daniken formula la tesi - e, per quella che è la mia esperienza, ha perfettamente ragione - che solo gli dei inventati non permangono a lungo nel ricordo degli esseri umani: quando al racconto manca uno sfondo reale, allora finisce presto nel dimenticatoio. E il fatto che in questo libro faccio ricorso, come fonti, pure ad antichi racconti popolari, non è dovuto al caso: gli incontri con presunti “esseri straordinari” di cui parlano devono avere un fondo di verità. Ma cosa sono gli spettri, gli spiriti, gli dei? Si tratta davvero di esseri superiori, o possono essere persone proprio come voi e me, solo con capacità tecnologiche o spirituali che li fanno apparire “divinità”? Per provare a rispondere, cominciamo con l’ipotizzare che visitatori dalle capacità tecniche come quelle che già abbiamo descritto siano effettivamente giunti sulla terra più di 10.000 anni fa. Ebbene, per loro cosa c’era di più ovvio se non decidere di operare nel continente atlantico tanto misterioso? Quel continente in cui è presumibile esistano congiunture di sistemi energetici a noi ancora sconosciuti che, da un lato, facilitano il viaggio dei visitatori - o addirittura che lo rendono possibile - e, dall’altro, fanno sì che in una regione in cui dovrebbe esserci solo mare sorga invece un continente (spero che il lettore abbia ancora abbastanza chiara la faccenda delle zolle continentali, che abbiamo trattato quasi all’inizio del libro...). Dei visitatori che possiedono una tecnologia molto avanzata giungono, dunque, sulla nostra terra proprio nel grande continente oceanico di Atlantide, e lì trovano una civiltà che, pur popolando il pianeta da decine di migliaia di anni, è a uno stadio di sviluppo molto basso, specialmente ai loro occhi. Il comandante della navicella spaziale conosce il potenziale evolutivo degli esseri umani, e decide in qualche modo di aiutarli. Se così contribuisce all’evoluzione di abitanti di un pianeta lontano dal suo o invece dà il la ai suoi stessi antenati, è un aspetto secondario. Ma agli occhi degli uomini, quei visitatori come possono apparire? I Lucai che credono che sia il primo “turista” che arriva nelle Bahama, cioè Cristoforo Colombo? Un dio, ovviamente! Peccato, però, che quel dio e il suo corollario di dei minori non portino con sè lo stadio evolutivo che invece offrirono i visitatori di diverse migliaia di anni prima. Proviamo, dunque, a sviluppare oltre la nostra ipotesi su questi primi nuovi arrivati. Si tratta solo di pionieri e quindi non possono fermarsi a lungo. Dopo un breve tempo, i visitatori considerano concluso il loro compito di ricognizione e lasciano la terra per andare a continuare l’opera in altre dimensioni. Ma, prima di partire, il comandante dello shuttle assicura agli esseri umani di essere ben disposto nei loro confronti e di voler mandare presto dei rappresentanti a continuare a occuparsi delle loro esigenze. Non passa molto tempo che già arrivano nuovi visitatori, questa volta con il compito di tenere in osservazione lo sviluppo degli uomini e, in caso di necessità, intervenire. Ci si accorge ben presto che a volte non è proprio possibile convincere gli esseri umani con argomenti ragionevoli. Così, per fare in modo che l’evoluzione umana proceda secondo la traiettoria prevista, di tanto in tanto i visitatori sono costretti ad aiutarli più o meno a forza. Quale tipo di contatto instaurano con gli abitanti di Atlantide? Un contatto diretto? Forse. Ma forse, avendo constatato che alcuni esseri umani hanno una coscienza capace di comunicare con loro a un altro livello energetico e sanno utilizzare energie non solo materiali e tangibili, anche un contatto di tipo indiretto. Ma chi sono questi esseri umani? Nient’altro che i sacerdoti, gli sciamani. Ecco che l’immagine che otteniamo è quella delle religioni presenti in tutta l’America e nell’Africa occidentale. Comunque, non solo le opere di Von Daniken ipotizzano e documentano che la nostra terra sia stata più volte oggetto di “visite”, fin da tempi molto antichi, e che i visitatori abbiano lasciato tracce della loro presenza nel mondo materiale e intellettuale del nostro pianeta. Come abbiamo visto lungo tutto il corso del libro, proprio la zona delle Bahama è caratterizzata da un grande numero di indizi di queste presenze.

Dove sono?

Poniamoci un’altra domanda: i visitatori non potrebbero, per caso, essere sempre presenti, qui da noi. La risposta potrebbe essere affermativa. Per civiltà in grado di viaggiare, attraverso tarlature, in altri mondi o altri tempi, nascondersi di fronte alla nostra tecnica di ricerca dovrebbe essere un semplice giochetto. Rivista da quest’ottica, anche la teoria di Sanderson di un’eventuale civiltà sottomarina non appare più tanto astrusa e potrebbe avere un senso. Non esiste luogo sulla terra di cui gli uomini sappiano poco quanto del mare. Le acque ricoprono il 70 per cento della superficie del nostro pianeta e in alcune zone raggiungono profondità anche di 10 chilometri. Certo, grazie a sottomarini speciali l’uomo è già sceso fin nelle zone più profonde degli oceani, e tuttavia ancora oggi penetrare in quel mondo, così vicino eppure tanto lontano, è impresa legata a un impegno tecnico enorme. I mari celano molto bene i segreti che contengono, anche quelli che non sono semplice opera della natura. Tanto per fare un esempio, per molti anni sottomarini sovietici sono passati e ripassati davanti alle coste della Svezia, proprio in faccia alla capitale Stoccolma. E nonostante i più moderni strumenti di ricerca, la marina svedese non è quasi mai stata in grado di individuarli. Quanto dev’essere facile, allora, per una civiltà tecnologicamente molto più avanzata della nostra, nascondersi agli occhi degli umani nelle profondità degli oceani. Non dimentichiamo, comunque, che esistono anche terre emerse fuori del nostro controllo: zone praticamente prive di insediamenti umani al centro dei continenti, i territori quasi deserti dei poli. Che problemi potrebbero avere una civiltà in grado di viaggiare attraverso delle tarlature a nascondersi in quei posti, per tenere in osservazione le fasi di sviluppo degli esseri umani? Si può azzardare, dunque, un’ipotesi piuttosto audace. I visitatori sono qui, su questa terra, e ci tengono d’occhio, nascondendosi nelle profondità marine. Con i loro shuttle interdimensionali possono lasciare il nostro pianeta e tornarci in qualunque momento. Ma naturalmente devono prestare attenzione a non farsi notare. E qual è il modo migliore per farlo? Tenendo d’occhio il nostro progresso. E chi, su questa terra, è più avanti di tutti nella tecnica sottomarina? La marina statunitense. E gli Stati Uniti dispongono di un centro di ricerche sottomarine? Certo: l’Atlantic Undersea Testing and Evolution Center, il Centro atlantico sottomarino di ricerca e di sviluppo. E dove si trova, mai, questo centro? A circa 5 chilometri a sud di Andros Town, central Andros, nelle Bahama, ovviamente. Per portare agli estremi quest’ipotesi audace, il lettore mi consenta ancora di porre una domanda retorica: quale evento straordinario viene in mente sentendo parlare dell’isola di Andros? Chickcharnies, naturalmente. Non saranno, per caso, membri d’equipaggio di una stazione di visitatori? E questa stazione si trova sempre nello stesso posto in cui era al tempo di Atlantide?

 

LE BAHAMA E LE FLORIDA KEYS: PORTE VERSO ALTRI MONDI

La sequenza degli indizi

Ricapitoliamo brevemente tutto ciò che abbiamo appreso nel corso della lettura. Per iniziare ci siamo chiesti come può essersi originato, geologicamente, il paradiso turistico di questa regione, e già qui abbiamo potuto constatare i primi misteri. Come abbiamo visto, infatti, ancora oggi i geologi non hanno fornito spiegazioni chiare su cosa possa avere causato il sollevamento del fondo oceanico proprio in questa zona, né sul perché di un sedimento marino tanto massiccio proprio in corrispondenza dell’arcipelago delle Bahama e della grande penisola della Florida. Grazie a quanto abbiamo appreso su altri fenomeni, ora siamo in grado ipotizzare una spiegazione dei dui eventi. Forse la loro causa risiede nella presenza di tarlature naturali, che hanno anche effetti fisici sulla struttura geografica della zona. Abbiamo poi esaminato la regione dal punto di vista storico. Così ci siamo imbattuti nel misterioso popolo cavernicolo dei Siboney, di cui nessuno sa dire con certezza la provenienza, e nei Lucai, che per secoli cercarono di sfuggire ai popoli cannibali caraibici, rifugiandosi infine nelle Bahama. In pace, ma solo per un po’ di tempo, perché a un certo punto giunge Cristoforo Colombo con le sue tre caravelle - riuscendo misteriosamente a navigare per centinaia di miglia sopra i banchi corallini dell’arcipelago senza incagliarsi - e subito dopo di lui sopraggiungono i conquistatori Spagnoli; che, non trovando altre risorse da sfruttare, iniziano a deportare gli indigeni per farne schiavi. Molti Lucai vengono quindi sradicati dalla loro terra o assassinati, altri si nascondono nella giungla impenetrabile delle isole maggiori, dove più tardi vengono raggiunti da schiavi africani che sono riusciti a sfuggire ai loro padroni. Ben presto sono sempre più numerosi i neri che si associano ai Lucai; gli uni e gli altri iniziano a constatare che su entrambi i lati dell’Atlantico evidentemente c’erano religioni, usi e costumi analoghi. Volgendoci ad esaminare i vari fenomeni anomali che avvengono nella zona, abbiamo avuto modo di constatare che queste isole, al di là dei tramonti da cartolina, sono spesso piuttosto inquietanti, anche in pieno giorno. Ci siamo imbattuti in “esseri misteriosi” che abbiamo ipotizzato essere manifestazioni di strutture di coscienze che, in un modo o in un altro, trovano o hanno trovato una via d’accesso al nostro mondo. Abbiamo anche fatto qualche tuffo nelle profondità marine, incontrando alcuni “mostri”. E abbiamo constatato che le interpretazioni in proposito sono piuttosto controverse, ma che nessuna di queste sembra significativa per aiutarci a chiarire il mistero del Triangolo. Un genere del tutto diverso di manifestazione in cui ci siamo imbattuti nell’isola di Andros, invece, ci ha suggerito non poche riflessioni: i Chickcharnies. Che le storie sui diavoletti celino, piuttosto, visitatori che provengono da altri mondi? Quindi è stato naturale iniziare ad addentrarci nell’argomento più incisivo - dopo quello delle sparizioni - del Triangolo del diavolo: l’avvistamento di UFO, fenomeno che in questa zona ha una frequenza che non ha eguali in nessun’altra parte del mondo. Tra le varie sparizioni, abbiamo preso in esame innanzitutto quella di un intero insediamento umano; e poi moltissime altre, che hanno avuto per protagonisti soprattutto imbarcazioni e aerei. in alcuni casi, abbiamo ipotizzato che la causa delle sparizioni fosse da ricercare in un’intenzione mirata. D’altra parte, ci siamo imbattuti anche in strani eventi a cui le possibili vittime sono invece riuscite a scampare, potendo così riferire la loro avventura. E ne abbiamo dedotto che, in questi casi, gli aerei e le imbarcazioni in questione erano finiti per sbaglio nei pressi di una tarlatura, naturale o artificiale. L’argomento conclusivo è stato quello di Atlantide. Anch’io, in questo mio libro, ho affrontato il dialogo riportato da Platone, ma, a differenza di chi mi ha preceduto, mi sono limitato ad analizzarlo anziché interpretarlo. E, invece di dare indicazioni nate da interpretazioni, ho riportato dati precisi sulla geografia e la storia di quel misterioso continente oceanico, dati che si basano su documenti che a quell’epoca risultavano esistere a Sais. Un’ampia digressione per illustrare e spiegare il fenomeno dell’acqua bianca ci ha poi portati a ipotizzare l’esistenza di relitti di Atlantide che potrebbero risalire a eventuali centrali elettriche, molto sofisticate. Gli unici resti di quella civiltà che il tempo e il mare potrebbero non avere consumato del tutto ancora oggi, non possono che essere di questo genere. Nella terza parte, la nostra attenzione si è concentrata su una nuova scoperta, quella dei misteriosi campi di deviazione magnetica, che abbiamo fatto oggetto di una specifica spedizione di studio. Partendo da resoconti ottenuti da subacquei dilettanti, nella primavera del 1995 abbiamo effettuato le prime verifiche, che ci hanno permesso di documentare l’esistenza e la strana forma di due campi di deviazione magnetica. Qualche altro risultato è stato ottenuto durante la spedizione semestrale nell’inverno 1995/96. Abbiamo potuto rilevare l’esistenza e la forma di altri due tipi di campi di deviazione magnetica, avvistare un UFO, incontrare pesci alquanto misteriosi presso un buco blu, e scoprire un’altra “muraglia” a Nassau, che ci ha permesso di confutare in maniera convincente i precedenti rinvenimenti di supposti relitti atlantici. Analizzando i risultati della spedizione, abbiamo poi ipotizzato che le forme dei campi di deviazione si modifichino con il tempo; rendendoci conto, comunque, che per documentare questo aspetto con maggiore precisione occorrono molti altri rilievi, e per un arco di tempo ben maggiore. Riguardo alla posizione dei campi, abbiamo notato che quelli segnalati finora si trovano tutti in una cintura che interessa le Florida Keys e le Bahama centrali, in particolare nello Stretto della Florida, nella Tongue of the Ocean e presso le isole di Bimini, Andros, Exuma e New Providence. Quanto ad eventuali influssi dei campi di deviazione magnetica sugli esseri viventi marini, abbiamo potuto riscontrare la mancanza assoluta di coralli cornei nei pressi immediati dei campi e, al contrario, un effetto d’attrazione nei confronti di varie specie di pesci. In questa quarta e ultima parte abbiamo infine rivolto i nostri riflettori sulla possibilità di svelare il mistero del Triangolo atlantico del diavolo grazie alle fondamentali scoperte che ci offre una nuova fisica. Per farlo, abbiamo dovuto addentrarci un po’ nelle teorie dell’incurvamento spaziotemporale e delle tarlature, utilizzandole poi come punto di partenza per spiegare gli strani fenomeni illustrati nel corso del libro. Ed effettivamente, moltissimi eventi che prima risultavano inspiegabili, ci sono così apparsi sotto una luce del tutto nuova. Seguendo le teorie della fisica più moderna abbiamo capito che è ipotizzabile che civiltà tecnologicamente molto avanzate abbiano utilizzato tarlature per compiere viaggi con degli shuttle interdimensionali. A questo punto possiamo tirare le fila del discorso e, prendendo spunto da Meckelburg, ipotizzare anche che gli incurvamenti spaziotemporali che permettono i viaggi interdimensionali siano in relazione con il campo magnetico terrestre. E questa ipotesi potrebbe aprirci nuove possibilità, per giungere ad una spiegazione degli strani campi di deviazione magnetica che abbiamo riscontrato. Nell’intero quadro che si stava delineando abbiamo poi potuto inserire anche la tematica degli UFO, che adesso possiamo considerare né più né meno che come shuttle interdimensionali. Ora vogliamo completare il discorso, specificando che le deviazioni magnetiche possono essere tracce lasciate dai loro processi di materializzazione e smaterializzazione; questa è, tra l’altro, anche l’opinione di Manson Valentine e Salvador Freixedo. O, più specificamente, possono marcare i punti in cui gli UFO entrano nelle dimensioni a noi note, o quelli in cui ne escono. A questo proposito Valentine sostiene che: “L’insorgere di campi elettromagnetici nel Triangolo è da ricondurre a una combinazione di cause dipendenti dalla natura”. Intendendo con ciò significare che, in posti particolari, un potenziale energetico di fatto esistente facilita agli shuttle interdimensionali il salto da una dimensione a un’altra, o addirittura che lo rende possibile. Come il treno è legato alle rotaie, così quelle navicelle sono forse legate alle tarlature. Gettando uno sguardo su altri mondi, sulla base di numerosi indizi, siamo giunti alla conclusione che anche il tassello di Atlantide può inserirsi armoniosamente nel quadro che è venuto a delinearsi.

Prima di concludere riportiamo da “Il Giornale dei Misteri” (agosto 2001) un brano riguardante la clipeologia; inserto La bella Italia dei Misteri, a cura della Redazione, pag. 21 (Se sei in Lombardia...):

[...] È ugualmente stupefacenti sono certe immagini [incise nella roccia o in oggetti preistorici, ndA] – e i lettori del GdM le conoscono bene - che mostrano uomini con la testa racchiusa in una specie di casco (elemento che compare anche nei ritrovamenti preistorici dell’Uzbekistan), munito per altro di strane appendici. Tali scene hanno ovviamente eccitato la fantasia dei “clipeologi”, di quei ricercatori, cioè, che cercano tracce testimoniali di eventuali ricognizioni ufologiche sulla Terra del passato: è stato infatti arditamente ipotizzato che queste figure con caschi fossero i ritratti di alieni scesi sul nostro pianeta e incontratasi con le popolazioni di allora. Una questione che per adesso resta irrisolta, come del resto ancora inesplicabile è tutta la fenomenologia ufologica... [L’Autore è forse un po’ scettico sull’ufologia, ma correttamente riporta anche l’ipotesi ufologica per quanto riguarda le incisioni con caschi e antenne, ndA].

 

Conclusione

Concludiamo ora questo lavoro su Atlantide, con alcuni brani di carattere archeologico, a sostegno dell’ipotesi principale di Preisinger: Atlantide-extraterrestri-UFO-teletrasporto da e per altri pianeti, attraverso tarlature spaziali, artificiali di origine atlantidea e ancora oggi funzionanti, visto che la zona è ricca di avvistamenti UFO nonché causa di “misteriose” sparizioni di veicoli terrestri, tipo navi e aerei, che incappano accidentalmente in questi varchi, come il pilota Gernon (2) che riesce in qualche modo ad uscirne ed ha potuto raccontare la sua poco piacevole e pericolosa esperienza.

Ma è possibile, si chiederanno senz’altro molti lettori, che a 10.000 anni di distanza quei presunti ‘accumulatori’ [sottoforma di cristalli, descritti dal sensitivo Edgar Cayce, ndA] siano ancora attivi? Facciamo per un attimo mente locale al “bel ricordino” che la nostra civiltà sta lasciando alle generazioni future con i resti degli impianti nucleari: perché un “ricordino” analogo non potrebbero averlo lasciato anche i cristalli di Atlantide [che ogni tanto entrano in attività aprendo i “varchi” utili agli UFO e pericolosi per le nostre navi e i nostri aerei di passaggio nella zona, ndA] [Pag 149]

Ma andiamo ad osservare più da vicino le presunte strutture architettoniche rinvenute nei bassi fondali delle Bahama. La più nota è quella denominata Bimini-Wall (scoperta nel 1968 da manson Valentine, Jacques Mayol, Harold Climo e Robert Angove): consiste in grandi “lastre” di pietra, spesso rettangolari, lunghe da 1 a 2 metri, disposte in fila per un tratto di circa un chilometro. La profondità di questa “strada” è grosso modo costante per il suo intero sviluppo, tanto da dare l’impressione che si tratti di costruzioni murarie disposte in piano e abbattute, come appunto quelle possenti, e già menzionate, del Perù e della Grecia. Un’altra presunta struttura architettonica è stata rinvenuta, sempre nel 1968, dai piloti civili Bob Brush e Trig Adams nelle vicinanze del South Andros. Apparentemente potrebbe trattarsi di una “muraglia” rettangolare, ma gli studi sulla sua origine non sono ancora completi. sempre nella stessa zona sono state rinvenute strane strutture circolari, formate da grossi pietroni, disposte in parte su due, in parte su tre file concentriche; Berlitz suggerisce che potrebbe trattarsi di una sorta di Stonehenge americana [pag. 151].

In ultima analisi, gli unici resti di Atlantide che eventualmente potrebbero essere ancora rilevati sono dello stesso tipo di quelli che resteranno, tra 10.000 anni, anche della nostra civiltà: cioè gli scarti delle centrali elettriche [pag. 153].

Che il fenomeno della sparizione di mezzi terrestri nella zona caraibica e le frequenti apparizioni di UFO abbiano a che fare con residuati artificiali dell’antica Atlantide è un’ipotesi interessante e affascinante, ma più interessante ancora sarebbe, per la nostra attuale civiltà, che nella zona ci sia veramente un varco per altre dimensioni o per lo spazio, quale che sia la sua origine (naturale o artificiale). “Varco” da studiare appropriatamente con appositi esperimenti (una volta acquisita una buona conoscenza teorica del fenomeno, basata sui buchi neri rotanti, gli wormholes, l’energia negativa, l’iperspazio, ecc. e loro relazioni); approfittare di questo laboratorio naturale: far navigare nella zona una nave civetta priva di equipaggio, ma telecomandata da terra, dotata di telecamere, anche a raggi infrarossi, sensori del campo magnetico, e sopratutto...localizzatori satellitari resistenti al calore, poiché gli oggetti che attraversano un campo magnetico si riscaldano; e tenendo anche conto dei dati di M. Preisinger raccolti nelle sue spedizioni. Così, nel caso che la nave-civetta incappasse nel “varco”, potrebbe rapidamente trasmettere a terra, nel breve lasso di tempo prima della sua “scomparsa”, tutti i dati possibili che ha fatto in tempo a rilevare. In laboratorio si applicherebbe il magnetismo, nel buco nero agisce la gravità, ma gli effetti finali sarebbero molto simili in quanto a teletrasporto. Si avrebbe così la possibilità di usare mezzi di trasporto simili a quelli degli extraterrestri (UFO) e la stessa rapida via per le stelle (iperspazio); consentendo anche a noi terrestri di diventare una civiltà avanzata e potremmo così esplorare in lungo e in largo e in breve tempo senza le attuali e pesanti limitazioni che al massimo consentirebbe primitive astronavi con armi e bagagli al seguito, tipo viveri e carburanti, e che ci permetteranno di raggiungere ed esplorare a malapena solo il “cortile di casa” – il sistema solare. Questo, in sintesi, il non tanto “segreto” messaggio finale del libro, messaggio che condividiamo pienamente. Ma la NASA, cosa ne pensa? (nota 4) In parapsicologia è noto il fenomeno del Poltergeist associato a piccoli teletrasporti di piccoli oggetti, che si verificano presumibilmente con la presenza contemporanea di alterazioni geomagnetiche locali e giovani con problemi di sviluppo psichico. Succede che oggetti si spostano, cadono e si rompono, volano per aria, ed escono o entrano da o in oggetti chiusi, tipo cassetti, credenze, ecc., come se passassero attraverso una quarta dimensione; e alterazioni geomagnetiche e iperspazio sembrano coinvolti, a livello molto più grande, nel Triangolo delle Bermude, con comparsa di UFO e scomparse di navi e aerei (teletrasporto da e per altri luoghi dello spazio). Quindi, una sia pur lontana parentela tra i due fenomeni, poltergeist e Bermude, potrebbe esserci benissimo. In definitiva, ufologia e parapsicologia potrebbero essere entrambe utili, in teoria, con i loro fenomeni naturali di teletrasporto (varco nelle Bermude e poltergeist) alla migliore conoscenza teorica e tecnica del teletrasporto dopo le opportune sistemazioni teoriche e i primi esperimenti, in laboratorio e/o sul campo (tipo quello da me proposto con la nave-civetta piena di strumenti di rilevazione ottica, IR, magnetica, ecc.). Conoscenza che occorre alla NASA e agli altri Enti che volessero un giorno imbarcarsi in questa difficile ma importante impresa con lo scopo pratico finale, oltre che teorico-tecnico-scientifico che ovviamente deve avere la precedenza, di esplorare rapidamente ed efficacemente il cosmo, annullando praticamente le grandi distanze e i noti problemi che esse comportano (carburanti, viveri, lunghi viaggi con astronauti a bordo, pericoli di ogni genere: asteroidi, ecc.).

Annotazioni

Annotazione 1. Dal citato libro di Michael Preisinger, Il Triangolo delle Bermude, PIEMME, Casale Monferrato (AL), 1999, pag. 87: “UFO nel Triangolo del diavolo Apriamo dunque una nuova sezione e, per introdurre il tema, citiamo un brano di Charles Berlitz: I resoconti sugli avvistamenti di UFO nella zona della Florida e delle Bahama hanno una frequenza che non regge il confronto con quella di altri territori. Qui gli UFO sono stati visti sparire in mare e ricomparire dal mare. il notevole numero di osservazioni in questo territorio ha suggerito la teoria che gli UFO siano in relazione con gli infortuni che accadono nel Triangolo delle Bermude o, in parole più esplicite, che da generazioni gli UFO rapiscano navi e aerei”.

Annotazione 2. Ivi, pag. 234, sulla descrizione del ‘tunnel’ percepito da un pilota nel Triangolo delle Bermude: “L’apparecchio sta arrivando da nordest, e la sua rotta viene seguita sullo schermo del radar. A un tratto l’aereo non si vede più e, temendo un tremendo disastro, con molte vittime, gli addetti alla torre di controllo entrano in grande agitazione. Dopo una decina di minuti, però, l’apparecchio ricompare sullo schermo e infine atterra senza problemi. Accolti da un grande trambusto, i membri dell’equipaggio restano perplessi. Poi, controllando l’ora - l’ultima volta che l’avevano fatto era poco prima che l’aereo sparisse temporaneamente dal radar - salta fuori che tutti gli orologi a bordo sono rimasti indietro di 10 minuti. Dov’è stato l’aereo nel frattempo? Di qualunque ‘posto’ si tratti, deve essere una dimensione in cui il tempo è fermo. Il secondo esempio è riportato nel bestseller Zeittunnel e riguarda l’esperienza fatta dal pilota Bruce Gernon il 4 dicembre dell’anno 1970, durante un volo dall’isola di Andros a Palm Beach, in Florida. Mentre sorvola i banchi delle Bahama con il suo Beechcraft Bonanza A36, a un tratto Gernon vede davanti a sè, nel cielo azzurro splendente, un’insolita nuvola di forma ellittica che cresce molto velocemente. Nel giro di pochi minuti, la nuvola raggiunge dimensioni gigantesche, e il pilota comincia ad avere davvero paura; studia un modo per aggirarla, anche a costo di uscire dalla rotta. Ma non fa in tempo, perché quella circonda già completamente l’aereo, lasciando aperto, proprio davanti a lui, solo una via a forma di galleria. Gernon vede la salvezza in quel tunnel e ci si infila, con il motore al massimo. Come racconterà in seguito, la galleria, che luccica di uno strano candore bianco e ha pareti che sembrano ruotare in senso orario, diventa via via più stretta. Nell’apparecchio c’è assenza di gravità, e le punte delle ali toccano ormai la superficie interna del tunnel. Infine Gernon esce dalla galleria, e si trova immerso in una nebbia d’un colore verde pallido: ovunque giri lo sguardo non vede altro che quella nebbia. Gli strumenti di bordo sono fuori uso, la radio non riesce a stabilire nessun collegamento. Poi, però, la foschia gradualmente si dirada e il pilota constata, con costernazione, di trovarsi già sopra Miami Beach. In base alla rotta che stava tenendo e alla velocità normalmente possibile, avrebbe dovuto essere solo nella zona di Bimini. In ogni modo, ora può raggiungere Palm Beach senza altri problemi e, dopo essere atterrato, constata di aver volato all’impossibile tempo record di 45 minuti: mezz’ora meno di quanto ci si impiega per quel tratto. Anche una verifica dei serbatoi gli riserva una misteriosa sorpresa: ha impiegato solo 106 litri di carburante, 45 meno del solito. Ma come possono verificarsi delle curvature spaziotemporali e quali eventuali conseguenze comportano? Per spiegarlo è necessario compiere un viaggetto nella fisica più recente e nella teoria delle tarlature. partiamo da un modello molto semplice, che facilita la nostra comprensione. Noi viviamo in quattro dimensioni, che ben conosciamo: le tre spaziali, più quella del tempo. proviamo ad immaginare, secondo il modello dell’erudito vittoriano Edwin Abbot, che esistano degli esseri bidimensionali che conoscono solo tre dimensioni: due dello spazio più quella del tempo. Facciamo conto che questi esseri vivano in un universo semplificato, una sorta di lunga striscia sottile di carta, su cui possono muoversi a destra, a sinistra, avanti e indietro, e che questo loro mondo sia chiuso ad anello ritorto, cioè in maniera tale che la faccia superiore di un’estremità continui nella faccia inferiore dell’altra. Se questi esseri bidimensionali vogliono andare da un punto del loro mondo situato sulla faccia superiore a quello corrispondente sulla faccia inferiore, devono compiere tutto il lunghissimo giro della striscia. E sono costretti a farlo, perché non conoscono la terza dimensione dello spazio, e perciò non sanno affatto che, in realtà, distano solo una minima frazione di millimetro dalla loro meta. A seconda di quanto è lunga la striscia, della velocità di crociera di questi esseri bidimensionali e della durata media della loro vita, può addirittura darsi il caso che le leggi fisiche di base rendano loro impossibile raggiungere la meta, tanto vicina eppure così lontana. Ma un bel giorno, un genietto tra gli esseri bidimensionali ha la brillante idea che può anche esistere un’altra dimensione e che forse, muovendosi in quella, basta un percorso brevissimo per riuscire a giungere alla meta apparentemente irraggiungibile. Così immagina di potere passare attraverso la striscia di carta - proprio come un tarlo utilizza la tarlatura che provoca - e in quel modo, transitando cioè per un’altra dimensione, pervenire in altri mondi. Ad altri esseri bidimensionali particolarmente acuti viene allora in mentre che anche il tempo è solo una dimensione e che, quindi, utilizzando una tarlatura, si può eventualmente viaggiare anche nel tempo, avanti o indietro. Ebbene, esseri geniali di questo tipo non esistono solo nell’ipotizzato universo bidimensionale, ma anche sulla nostra terra, che supponiamo unicamente quadrimensionale; sono John A. Wheeler, il precorritore delle teorie dei buchi neri e lo scienziato che per primo ha formulato nei dettagli la teoria delle tarlature, e Michael S. Morris, Kip S. Thorne e Ulvi Yurtsever del California Institute of Technology”.

Annotazione 3. Ivi, sui ‘buchi neri’, pag. 245: “Passiamo ora a un altro fenomeno astronomico, reso noto dal matematico inglese Stephen Hawking. Nel 1973, lo studioso osserva che determinati buchi neri rilasciano delle particelle. Da qui deduce che questi strani ‘corpi’ celesti si sono formati al momento dell’origine dell’universo, non solo con il collasso gravitazionale classico che abbiamo descritto, ma per effetti di meccanica quantistica. Teoricamente, ai potentissimi buchi neri e bianchi dell’universo corrispondono, nel mondo del piccolissimo, in una grandezza inferiore a quella dell’atomo, i cosiddetti minibuchi neri e bianchi. Sulla base delle teorie di Michael Morris e dei suoi colleghi, questi possono essere sfruttati, con apparecchiature apposite, per spostamenti nel tempo e nelle altre dimensioni. Il punto determinante in questa nuova teoria consiste nel fatto che concepisce la possibilità di costruire appositamente delle tarlature, in pratica di controllare la produzione di minibuchi neri e bianchi sia dal punto di vista spaziale sia da quello temporale. Anche se, oggi, questa teoria può sembrare piuttosto utopica, voglio ricordare che solo un centinaio di anni fa non si sarebbe mai ritenuto possibile attuare la fissione nucleare, che però adesso è una realtà, e nemmeno la fusione, che speriamo di riuscire presto a realizzare. Ma occupiamoci un attimo più da vicino dell’ipotesi di costruire appositamente dei buchi neri, delle tarlature, e soprattutto della teoria di Morris: di utilizzarli cioè per viaggi tra le varie dimensioni. Come potremo constatare, la nuova fisica ha già posto le basi teoriche per questo genere di viaggi al di là dello spazio e del tempo”.

Annotazione 4. Buco nero rotante – Viaggi nel futuro. All’inizio di tutto poniamo una riflessione molto semplice: l’uomo non è (ancora?) in grado, con le sue sole forze intellettuali, di costruire appositamente una tarlatura e di passarci attraverso. Così come ci occorrono strumenti tecnici specifici per andare sulla luna, anche per compiere viaggi interdimensionali dipendiamo in primo luogo da un mezzo specifico. Ma prima di studiare che caratteristiche deve avere, o cosa deve permettere, potremmo dargli un nome. E visto che il mezzo di trasporto riutilizzabile impiegato per andare avanti e indietro dalla terra allo spazio si chiama shuttle, analogamente potremmo chiamare shuttle interdimensionale quello da impiegare per andare avanti e indietro dalle nostre ad altre dimensioni. E ora affrontiamo il tema. E’ davvero possibile fare viaggi attraversando delle tarlature? In base agli studi che partono dal presupposto che, entrando in un buco nero, la materia precipita in una singolarità, assolutamente no: qualunque oggetto inghiottito da quello strano ‘corpo’ celeste, compresa una navicella spaziale, viene torchiato fino a ridursi a una non esistenza. Ma ormai questi studi sono confutati. Roy Kerr, per esempio, dimostra che i buchi neri ruotano a una velocità strepitosa, e che perciò al loro interno si forma, come in un gorgo, un ulteriore buco. La rotazione velocissima è un fenomeno provocato dalle normali leggi della meccanica: è dovuto prima di tutto al fatto che anche le stelle da cui derivano ruotano, e poi al fenomeno per cui la riduzione del diametro, consequenziale al collasso, provoca un aumento della velocità di rotazione (proprio come accade alla pattinatrice che fa piroette sul ghiaccio). Calcoli fisici permettono di giungere al risultato che un buco nero con massa iniziale pari a dieci volte quella del sole ruota attorno al proprio asse mille volte al secondo, ha un diametro totale di 60 chilometri e, grazie alla forza centrifuga, presenta nel centro una galleria di circa 600 metri di diametro. Lo shuttle interdimensionale potrebbe quindi utilizzare quella galleria, andando però a una velocità pari a circa il 60 per cento di quella della luce, in modo da adeguarsi a quella periferica del buco. Per farci un’idea della difficoltà dell’impresa, potremmo paragonarla al tentativo di passare con un Concorde sotto un ponte, avendo solo 10 centimetri di margine per lato oltre le ali e a una velocità pari al doppio di quella del suono. Ma i problemi tecnici non finirebbero qui: anche la navigazione sarebbe tutta un programma. Per fare mente locale, pensiamo un attimo al primo “turista” mai giunto nelle Bahama, Cristoforo Colombo: al di là di tutte le incognite, l’esploratore genovese sapeva dove voleva andare e, grosso modo, conosceva la strada per arrivarci. Noi, invece, non sappiamo minimamente dove andremo a finire se entriamo in una tarlatura, e non parliamo poi della “strada” per arrivarci. Perciò dobbiamo essere pronti a ogni sorpresa, e a chiarire la questione del “cosa ci facciamo qui, ora?” solo una volta arrivati. Non è escluso che, con il passare del tempo, l’umanità riesca a escogitare dei modi, a mettere a punto delle possibilità per poter controllare la navigazione anche attraverso tarlature naturali, già esistenti. D’altronde, mentre i primi marinai si appoggiavano ai dromi installati lungo le coste, oggi, grazie ai sistemi satellitari, siamo in grado di determinare esattamente la nostra posizione in qualsiasi momento e in qualsiasi punto del mare ci troviamo. Per adesso, tuttavia, i viaggi attraverso tarlature già esistenti presentano, come abbiamo visto, alcuni problemi tecnici non indifferenti. E perché non crearne, allora, di artificiali? Voglio chiarire la proposta con un esempio: se dobbiamo andare da Nassau a San Francisco, e ci affidiamo solo alle vie d’acqua naturali, siamo costretti a fare il giro attorno a Capo Horn, ma se utilizziamo il Canale di Panama - una via d’acqua, appunto, artificiale - possiamo risparmiarci non pochi problemi. E’ dunque possibile costruire noi stessi delle tarlature, le “nostre” tarlature? A questo scopo, Adrian Berry propone di radunare nel cosmo, utilizzando dei robot, tanti gas e polveri fino a ottenere dieci volte la massa del sole, in modo da produrre artificialmente un buco nero. Gli stessi robot poi potrebbero attraversarlo e, una volta sbucati dal corrispondente buco bianco, produrre accanto a quello un altro buco nero per il ritorno. Devo dire, però, che come sistema mi pare piuttosto dispendioso. Nel suo libro Die Einstein-Rosen-Brucke, Buttler propone un’altra via, quella di utilizzare tarlature già esistenti, cercandole però con una navicella costruita appositamente e capace di sfruttare, come forza motrice, i twistori dei nodi spazio-temporali di Penrose, che perciò chiama shuttle a twistori. il vantaggio di una navicella di questo genere sta nel fatto che non si troverebbe costretta a navigare contro lo spazio-tempo; sfrutterebbe, anzi, lo stesso spazio-tempo a proprio vantaggio. Proviamo ad ampliare l’idea di Buttler, abbinandola a quella di costruire noi stessi delle tarlature, e - semplificando, naturalmente - cerchiamo di figurarci come potremmo tradurre il tutto in concreto. Come prima cosa, addensando della materia, lo shuttle costruisce nelle sue immediate vicinanze il minibuco nero che gli permetterà di entrare nel super-spazio. Poi si piazza, con l’equipaggio e tutto l’occorrente, davanti al buco in uno stato vibratorio ad altissima frequenza, finché le vibrazioni lo “scuotono” facendolo entrare in uno stato interdimensionale in risonanza con il super-spazio che esiste all’interno della tarlatura. Una volta raggiunto quello stato o forma, lo shuttle può muoversi da una dimensione a un’altra; e all’uscita dalla tarlatura, o dal minibuco bianco, procedere all’inverso recuperando, per mezzo delle vibrazioni, il suo stato o la sua forma originari. Tutto questo è, da un punto di vista teorico, non solo possibile ma anche decisamente più ragionevole - vedi Einstein - che non le velocità pazzesche ipotizzate dalla fantascienza: forze motrici a fotoni o ad antimateria, che farebbero raggiungere velocità multiple rispetto a quella della luce, sono ipotesi fantastiche del tutto insensate e perciò irrealistiche, non foss’altro perché in netto contrasto con le leggi della relatività, sia generale sia ristretta. Ma facciamo il punto su cosa possono permetterci i viaggi interdimensionali. Siccome le varie dimensioni sono tra loro collegate, per mezzo del super-spazio, ovunque e in qualunque momento, viaggiare tra le dimensioni significa anche viaggiare attraverso la quarta, cioè il tempo. perciò, da qui e ora diventerà possibile arrivare ovunque, anche nel nostro passato o nel nostro futuro. La cosa lascia sconcertati? non c’è niente di preoccupante, può succedere quando cambiano i parametri. Come spiega amichevolmente la regina in Attraverso lo specchio di Lewis Carrol: “È la conseguenza della vita alla rovescia [...] All’inizio fa sempre girare un po’ la testa”. Anche se adesso tutto ci sembra così utopico, Morris e i suoi collaboratori documentano in maniera razionale le basi teoriche per i viaggi interdimensionali. E poi, non è solo un secolo fa che tutto il mondo si è preso gioco di Otto Lilienthal?

Annotazione 5. Sulla NASA. Sappiamo già che la NASA è interessata ai moderni sistemi di propulsione non lineare (motori a curvature, ecc.), ma potrebbe, se volesse, effettuare a costi ragionevoli gli esperimenti proposti nella zona delle Bermude, e con i dati raccolti, passare agli esperimenti di teletrasporto magnetico in laboratorio, per esempio di tipo Ferlini con le elettrocalamite disposte a croce (G.B.Ferlini, La Barriera Magnetica, Ed. Mediterranee, 1986 ). La NASA e la scienza, però, dovrebbero chiudere un occhio, o se preferiscono, turarsi il naso, sull’ufologia e la parapsicologia, discipline poco gradite a governi e scienziati, ma che possono dire qualcosa sul teletrasporto magnetico e gravitazionale la prima, e sul teletrasporto magnetico e paranormale la seconda (RSPK, OOBE, NDE, CC), qualcosa di utile al futuro teletrasporto scientifico (già iniziato con il teletrasporto quantistico sui fotoni); e risparmiando possibilmente molte ricerche e fondi per giungere poi a risultati teorici già noti, seppure ancora in maniera confusa e frammentaria, alle suddette discipline.

Annotazione 6. La Chiesa apre alla vita extraterrestre. Il quesito se la Terra sia l’unico pianeta abitato nell’universo è stato posto lo scorso agosto durante la rassegna Vacanze e Cultura 2001 – La filosofia nei luoghi del Silenzio, curata dallo Studio Filosofico Domenicano di Bologna, affiliato alla facoltà di Filosofia della Pontificia Università San Tommaso d’Aquino in Roma. Dall’8 al 14 agosto presso l’Eremo Camaldolese di Monte Giove, a Fano, sono stati infatti dedicati una serie di incontri dal titolo La vita dell’Universo e la vita nell’Universo, scopo del quale è stata una presentazione delle possibilità che la Terra non sia l’unico pianeta abitato del nostro Sistema Solare e di altri interessanti contributi analoghi da tutto il mondo della scienza. Tra i relatori più importanti che hanno partecipato alla manifestazione ricordiamo Federico Delpino (fisico e astronomo dell’Osservatorio di Bologna) e Roberto Bedogni (dell’Osservatorio Astronomico di Roma). “Le missioni spaziali hanno consentito la raccolta di una copiosissima messe di informazioni sui pianeti del Sole e sui loro satelliti e le osservazioni che si vanno raccogliendo sulle stelle nei dintorni del Sole hanno consentito di individuare un certo numero di stelle che possiedono pianeti e che consentono, forse, l’esistenza della vita”, così ha commentato il Dr. Alfredo Caminale dell’Associazione Culturale Cattolica Accademia (http://www.comune.bologna.it/iperbole/assoacca/). L’incontro si aggiunge ai numerosi che nel corso degli ultimi anni hanno visto la Chiesa in prima linea per lo studio, la ricerca e l’individuazione di altre forme di vita nell’universo. L’operato di Monsignor Balducci non pare quindi essere troppo isolato, e sembrerebbe essere stato soltanto la punta di diamante di un orientamento in via di sviluppo (fonte: Studio Filosofico Domenicano di Bologna, 10 Giugno 2001).
“L’universo è tanto grande che sarebbe una follia dire che noi siamo un’eccezione”. George Coyne, direttore dell’osservatorio astronomico del Vaticano, crede all’esistenza di altre forme di vita nella vastità del cosmo. Un parere condiviso anche da altri studiosi, e portatore di un significato particolare anche per la fonte da cui proviene: un’autorevole fonte scientifica, ma anche un religioso. Il direttore della Specola Vaticana, è infatti un gesuita. Il modo di interpretare il cielo dall’osservatorio spostato da Roma a Castelgandolfo per volere di Pio X, evidentemente è molto cambiato e la Chiesa, anche nei fatti, è lontanissima dai tempi della condanna di Galileo Galilei. Riguardo all’esistenza di vita nell’universo, un’intervista al “Corriere della Sera” il religioso americano spiega che “per il momento non c’è alcuna evidenza scientifica della vita, ma stiamo accumulando osservazioni che indicano tale possibilità”. Da scienziato Coyne ammette che “è una prospettiva che appassiona” e, pur invitando alla cautela, prova a immaginare gli effetti che avrebbe sulla fede la certezza dell’esistenza di altre forme di vita: “Questo ci dimostrerebbe che Dio ha ripetuto altrove ciò che esiste sulla terra e nello stesso tempo toglierebbe dalla fede quel geocentrismo, quell’egoismo, se posso dire, che ancora la caratterizza”. Coyne si spinge oltre: “Se io incontrassi un essere intelligente di altri mondi e mi rivelasse una sua vita spirituale e mi dicesse che anche il suo popolo è stato salvato da Dio mandando il suo unico figlio, mi domanderei come è possibile che il suo ‘unico’ figlio sia stato presente in luoghi diversi. Pensieri simili sono una grande sfida”. Il buio dell’universo è oggi molto meno oscuro, l’osservazione dell’uomo è giunta fino al big bang che originò l’universo, e Coyne invita la Chiesa cattolica a tenere il passo alla luce di una convinzione fondamentale e innovativa: “La scienza per un credente, comunque, non demolisce la fede ma la sprona”. (“Il Nuovo”, 7 gennaio 2002: http://www.ilnuovo.it/nuovo/foglia/0,1007,97866,00.html).