"METODO", N. 21/2005

Giulietto Chiesa
(Giornalista)
INTRODUZIONE A
MISTERO AMERICANO DI MARINA MONTESANO

Questo lavoro rappresenta, nel momento in cui scrivo queste righe, la più completa e precisa raccolta di dati e d’informazioni disponibili sulla tragedia dell’11 settembre 2001, e sugli incredibili eventi che l’hanno resa possibile.
È la fotografia fedele dello stato dell’arte sulla materia. Negli anni, nei decenni a venire, emergeranno probabilmente molti altri brandelli di verità, ma sarà assai difficile, per non dire impossibile, che si possa giungere a una conclusione. Come è già accaduto in altri grandi episodi di terrorismo ‘di Stato’, la verità non sarà mai più ricostruibile. E la ragione di ciò è, a ben pensare, una prova indiretta che siamo appunto di fronte a un grande evento della categoria ‘terrorismo di Stato’.
Il problema è capire di quale ‘Stato’, di quali Stati si tratta, come ci si è arrivati e, soprattutto, perché.
Il lavoro di Marina Montesano è prudente, è corretto, non si lancia in ipotesi laddove non c’è il sostegno di fatti concreti. Il titolo dice però che, alla fine, l’autrice – come chi scrive queste righe – non ha molti dubbi sul fatto che l’11 settembre sia stato qualcosa di molto più complesso della banale ‘verità in pillole’ che è stata venduta a tutto il pianeta.
Solo le grandi cospirazioni possono infatti permettersi questo finale da delitto perfetto. Perché, anche se sono ben lungi (questa come le altre) dall’essere impeccabili (in quanto la percentuale del cretino è altrettanto alta tra i complottatori che in ogni altra categoria umana), esse possono permettersi una vasta serie di complicità. Solo le grandi cospirazioni hanno questa caratteristica. Le piccole, gli atti terroristici di piccolo calibro, si scoprono sempre.
Non si tratta mai soltanto di mandanti e di esecutori, i primi sempre in numero estremamente limitato, i secondi più numerosi, ma anch’essi facilmente ‘numerabili’. Attorno ai primi e ai secondi esiste (viene predisposto con largo anticipo) un vasto alone di ‘complici’ i cui incarichi sono quelli di fermare, dirottare, insabbiare, confondere le acque, disturbare le ricerche, perdere o distruggere documenti, liquidare o uccidere testimoni scomodi e così via in una casistica sterminata che, leggendo queste pagine, apparirà con grande e lucida evidenza.
Il lettore scoprirà, scorrendo queste pagine – ne sono certo, con crescente stupore – che dei mandanti non si riesce ad avere che tenuissime e sfocate immagini indirette. Degli esecutori, sebbene l’opinione pubblica abbia già digerito l’idea che si sappia tutto, invece si sa pochissimo, e quel poco è stato sistematicamente predisposto in anticipo, in modo da rendere impossibile una conclusione univoca. Il resto è talmente inquinato, contraddittorio, ha già subìto così tante manipolazioni che ricostruire la verità sarà impresa titanica. Sempre che qualcuno possa, o voglia, rischiare di intraprenderla.
Si vede in molti passaggi una mano sapiente e fredda, che ha lasciato molte tracce, intenzionalmente, ma tutte tali da rendere le indagini successive difficili come un rompicapo multiplo. Basti ricordare che di molti dei diciannove presunti dirottatori – che sono stati mostrati al mondo intero nei due o tre giorni successivi all’attentato (non è strano, davvero, che prima non se ne sapesse niente e dopo, d’un tratto, tutto?) – non solo l’identità è tutt’altro che certa; non solo molti sono ancora vivi; non solo i loro comportamenti sono straordinariamente strani e contraddittori; ma sono anche ‘doppi’ e ‘tripli’, come nel caso del cosiddetto ‘ventesimo’ dirottatore, di cui sono in circolo almeno tre esemplari diversi, uno solo dei quali è sotto custodia e sotto processo.
Altrettanto straordinario è scoprire che in pratica tutti i diciannove erano già da tempo sotto sorveglianza. Di alcuni si conosceva con certezza il legame con azioni terroristiche precedenti, tentate o eseguite. Ma ciò non impedisce loro di entrare e uscire dagli Stati Uniti, alcuni con visti multipli, altri sotto la diretta supervisione dell’FBI. In qualche caso si vede a occhio nudo che, una volta scoperti, c’è sempre qualcuno che interviene in soccorso, in modo che possano procedere oltre senza essere disturbati.
In alcuni casi è possibile vedere che, mentre integerrimi cittadini americani denunciano i loro sospetti e mettono gli organi inquirenti sulla giusta traccia, c’è ancora chi interviene perché l’indagine non giunga a buon fine.
E anche adesso, a più di due anni di distanza, non una sola inchiesta è stata aperta di fronte a fatti palesi di connivenza con coloro che, forse (ma non è certo) diverranno terroristi e, forse (ma nemmeno questo è stato accertato) non erano destinati a morire a bordo degli aerei essendo invece copie finte dei terroristi, su cui doveva essere concentrata l’attenzione di coloro che, per caso o per intenzione, si fossero trovati sulla loro strada. Il mistero del doppio Mohammed Atta, che vuole far sapere a mezzo mondo la sua intenzione di acquistare un aereo per spargere armi chimiche è, di queste operazioni di diversione, uno degli esempi più eclatanti.
Sono stati quelli di al-Qaeda a organizzare con largo anticipo queste piste false? E perché mai avrebbero dovuto attirare su di loro, sulle carte di credito con i nomi ‘veri’, sui conti correnti con denari ‘veri’, l’attenzione degli inquirenti? Domande, domande che non hanno risposta, anche perché le risposte non sono state nemmeno cercate. Tirate le somme, dei diciannove presunti ‘dirottatori’, entrati negli Stati Uniti in tempi diversi, risulta che (sebbene il Dipartimento di Stato abbia affermato che dodici di loro erano stati ‘intervistati’ dalle autorità di frontiera americane) le interviste di quattro di loro, tra cui il famosissimo Mohammed Atta, sono state distrutte e non sono più rintracciabili, mentre tredici di loro non risultano essere mai stati intervistati.
Allo stesso modo non si è proceduto di un centimetro, in due anni, nella ricerca degli organizzatori delle speculazioni finanziarie che precedettero l’attentato. Si può ammettere (a fatica, invero) che FBI, CIA, NSA, ecc. non avessero nemmeno esaminato i dati offerti loro da un software predisposto e funzionante da tempo proprio per segnalare tempestivamente, in tempo reale, grosse speculazioni che annunciavano sconvolgimenti sui mercati finanziari. Ma non è comprensibile, di nuovo, che le indagini si siano fermate, quando è parere di tutti gli esperti che è tutt’altro che impossibile, volendolo, risalire agli intermediari che organizzarono massicce put options contro le compagnie aeree, e contro le compagnie assicuratrici che, guarda caso, avevano a che fare con il World Trade Center.
E, sempre per restare in tema, negli anni precedenti l’assalto terroristico, in decine di casi (come viene qui ripetutamente sottolineato) il WTC era al centro delle attenzioni di tutti, anche perché era stato già una volta oggetto di una potente azione terroristica. Vi furono perfino esatte previsioni di aerei civili che si sarebbero dovuti schiantare contro le Torri. Quelle Torri. Ma ogni volta appare clamorosamente evidente che qualcuno si preoccupa di stornare l’attenzione da questo aspetto.
Si può continuare quasi all’infinito e il lettore potrà saziarsi di punti interrogativi sempre più inquietanti, sbalorditivi, incredibili. Fino a giungere a una sola conclusione possibile. Di quale storia si è trattato, in verità, non possiamo sapere, ma tutta la storia che ci hanno raccontato non regge alla più elementare delle disamine. Questo è possibile dirlo adesso, come era già possibile dirlo nei primi mesi del 2002.
Tutta la ricerca dell’autrice dimostra che lo stuolo dei comprimari, dei complici, consapevoli e meno consapevoli, è assai vasto. Una vera rete di complicità che coinvolge falangi di cristiani e di musulmani, di miliardari, di apparati degli Stati, di banchieri, di uomini di Stato, ecc. Molto al di là, e molto più importanti, di un fanatico nascosto in una grotta afghana e diciannove o venti kamikaze decisi a morire.
La versione ufficiale è dunque falsa. Coloro che l’hanno costruita e distribuita mentono. Su questi due pilastri, assolutamente certificabili e certificati, anche in queste pagine, come in diverse altre attendibili ricostruzioni, si può porre la domanda successiva: perché hanno mentito? Perché mentono Bush, Cheney, Rumsfeld, Condoleeza Rice, Richard Armitage, e tutto il resto dell’attuale amministrazione degli Stati Uniti? Cos’hanno da nascondere? Solo la loro inefficienza nel prevedere, nel prevenire?
La risposta è, anche in questo caso, inequivocabile: no.
A quanto pare, pur con estrema circospezione, la questione balena anche nelle menti di parte dell’establishment statunitense, sebbene la campagna di intimidazione per chiudere la bocca a tutti coloro che pongono interrogativi sia stata e continui a essere estremamente virulenta. Si veda l’editoriale non firmato del «New York Times» del 30 ottobre 2003, in cui, di fronte alla «recalcitrante» amministrazione (parola del senatore Thomas Kean, repubblicano, presidente della speciale commissione d’indagine incaricata di sapere cosa sapeva George Bush prima dell’11 settembre), si scrive testualmente: «L’avvicinarsi delle elezioni presidenziali rende il tentativo di fuga dell’amministrazione ancora più sospetto. La mancata documentazione e il rifiuto di affrontare la verità non faranno che alimentare le teorie di cospirazione e minacciare le possibilità dell’America di prevedere future minacce». Sfrondate della diplomazia, le auliche parole della più autorevole voce dell’establishment statunitense indicano nel presidente in carica una fonte di pericolo per la sicurezza nazionale degli Stati Uniti.
Siamo ancora, come si vede, soltanto sulla soglia dell’abisso, rappresentata dall’inefficienza, oltre la quale, come annuncia il «New York Times», si è costretti a precipitare nei gorghi delle teorie della cospirazione. Ma in molti, troppi casi qui esposti, non si tratta solo di inefficienza. Se fosse solo questo non si spiegherebbe perché nessuno, proprio nessuno, dei principali responsabili della sicurezza degli Stati Uniti sia stasto rimosso dal proprio incarico. Anche se si fosse trattato di errori, di leggerezze, di peccati veniali, essi sono comunque all’origine di 3000 morti americani. E né il direttore della CIA, né quello dell’FBI, né il vice capo degli stati maggiori riuniti dovrebbero ancora essere al loro posto. Invece alcuni di loro sono stati addirittura premiati, promossi, elevati di grado, ringraziati, encomiati. Di che?
Evidentemente la tesi dell’errore, dell’inefficienza, non regge. Dunque dobbiamo dedurre, per la contraddizion che nol consente, che sono stati ‘efficienti’, che hanno fatto ‘quello che dovevano fare’. Sfortunatamente, forse, quello che dovevano fare era di non fermare un’operazione di cui avevano avuto abbondanti informazioni nel corso di diversi anni.
In questo caso, stando alle parole pronunciate dal Capo della CIA George Tenet nel corso di un’audizione di fronte al Congresso, coloro che conoscevano il meccanismo, cioè i suoi veri motori, furono «tre o quattro» in tutto. E, secondo la vulgata ufficiale, la verità banale che tutti i media del mondo hanno ripetuto a pappagallo, e che ancora ripetono, i dirottatori furono diciannove. In questo lavoro si vede con tutta evidenza che i ‘diciannove’ non sarebbero arrivati a tanto se non fossero stati aiutati da altre centinaia di persone.
Molte delle quali – è questo uno dei punti più importanti da mandare a memoria – non erano né di religione islamica, né di nazionalità provenienti dal mondo arabo o generalmente musulmano. Erano invece cittadini statunitensi, probabilmente di religione cristiana e per giunta (alcuni) convinti di agire nell’interesse del proprio paese, cioè di stare compiendo il proprio dovere.
Solo dopo, a cose fatte, alcuni di questi anelli, i più intelligenti di regola, capiscono qual è il gioco al quale hanno preso parte senza averne nozione. In questo lavoro se ne evidenziano diversi casi. Quello, ad esempio, degli agenti dell’FBI Robert Wright e John Vincent (capitolo nono) che, fin dal 1998, erano sulle tracce della cellula terrorista di Chicago che veniva tenuta sotto controllo in relazione agli attentati di quell’anno contro le ambasciate americane in Africa. I due scoprono che la loro pista li porta al finanziatore, il magnate saudita Yassin al-Qadi, già noto ai servizi come finanziatore di al-Qaeda. Segnalano il fatto ai vertici dell’FBI che, nel corso dei tre anni successivi, ostacolano e infine chiudono l’indagine. Wright insiste e la vicenda diventa pubblica. Come risultato riceverà una punizione e sarà costretto a intentare causa all’FBI per vedere riconosciuti i propri diritti. Dopo l’11 settembre, piangendo chiederà scusa ai familiari delle vittime durante una conferenza stampa in cui ripete le sue accuse contro la dirigenza dell’FBI. Che è – si noti – come tutti i vertici di tutte le organizzazioni coinvolte, ancora al suo posto. Un caso analogo, raccontato qui e in altre ricostruzioni, è quello di un altro agente dell’FBI, John O’Neill. Si tratta di un quadro di alto livello che, tra altre indagini connesse con il terrorismo e al-Qaeda, si vede affidata quella dell’attentato contro la USS Cole nel maggior porto yemenita. Si reca nello Yemen con una squadra di 200 investigatori, ma solo per trovare sulla sua strada l’ambasciatrice statunitense Barbara Bodine che prima lo costringe a ridurre la squadra a cinquanta uomini e poi gli impone la sospensione dell’indagine. Anche O’Neill non tace. Nell’estate 2001 rende noti i suoi sospetti e, per questo, viene messo sotto inchiesta. Lascerà l’FBI in agosto, per assumere l’incarico fatale di capo della sicurezza del World Trade Center. Morirà al 34-esimo piano della Torre Nord.
E va detto subito, a questo punto, che dal libro di Marina Montesano trovano puntuale conferma tutti i peggiori sospetti sui vertici del Federal Bureau of Investigation degli Stati Uniti d’America. I due casi appena citati sono soltanto alcuni dei misteriosi insabbiamenti, depistaggi, veri e propri salvacondotti per i futuri terroristi, quasi tutti già ben noti all’FBI e in parecchi casi anche alla CIA, che hanno caratterizzato l’intera vicenda della caccia ai dirottatori prima dell’11 settembre.
Del resto è questo uno dei segreti professionali meglio custodito tra i Servizi segreti di ogni latitudine e longitudine: quello consistente nel mettere in moto una miriade di agenti inconsapevoli. Persone, cioè, ciascuna delle quali esegue ordini in perfetta buona fede, senza minimamente sospettare di essere parte di una catena di operazioni – una specie di catena di montaggio del complotto – il cui scopo è del tutto diverso da quello che essi possono dedurre anche analizzando con precisione l’anello in cui si trovano.
In questa catena vi sono tuttavia diversi anelli ai quali viene assegnato il compito di bloccare l’indagine. Cioè personaggi che eseguono consapevolmente un ruolo attivo di depistaggio.
C’è un altro aspetto da non perdere di vista per non cacciarsi nel vicolo cieco delle semplificazioni, che a sua volta conduce a conclusioni errate. Non si può dire «se lo sono fatto da sé». Non si può dire: «è stata la CIA, o l’FBI, o il Mossad, o l’ISI pakistano, o i Servizi segreti dell’Arabia Saudita». Infatti, in nessun caso, mai, un Servizio segreto entra in campo con la sua firma. Il fittissimo sottobosco di relazioni che lega tra di loro tutti questi Servizi rende addirittura banale l’interazione tra individui di diversa provenienza ideologica, religiosa, nazionale. Il denaro è sempre il collante principale.
Basterebbe tornare a vedere alcuni dei migliori film americani, a partire da I tre giorni del condor, per rendersi conto che questa pratica non dev’essere inventata perché è in azione da sempre. È la grandezza dei problemi politici che sorgono a livello internazionale a dettare le dimensioni delle operazioni di diversione che occorrono per cambiare il corso degli eventi. In questo caso specifico il corso della storia.
Da questo lavoro emerge esattamente il contrario di una semplificazione: è un intreccio molto complesso in cui intervengono spezzoni, singole persone, agenti provocatori, agenti retired, che lavorano in proprio, che non sono a libro paga, che progettano e poi spariscono, sicuramente doppi e tripli, a loro volta incaricati di eseguire solo alcuni segmenti dell’operazione, ciascuno interessato a obbedire agli ordini di un padrone o superiore (in parecchi casi a più d’uno), il quale, a sua volta, conosce soltanto un dettaglio, ma non l’intero piano.
Ne consegue che operazioni di questa portata richiedono una lunga preparazione. Non solo. Si tratta quasi sempre di operazioni multiple, che prevedono un certo numero di obiettivi intercambiabili, tutti volti allo stesso risultato, sui quali si lavora simultaneamente, fino a che il ‘ponte di comando’ non decide scegliendo uno dei piani tra quelli che erano stati predisposti e che stavano procedendo parallelamente. Molte delle pedine operative agiscono su diversi progetti simultaneamente e vengono informate dell’ultimo ordine operativo solo a poche ore dall’esecuzione. Stando a uno dei nastri attribuiti a Osama bin Laden, nemmeno i dirottatori si conoscevano tra di loro fino al momento in cui salirono sui rispettivi aerei. Ecco perché quelli del volo 93 – secondo i racconti – si mettono il nastro rosso alla fronte: per riconoscersi tra di loro.
Non viene in mente l’analogia con il gruppo ‘brigatista rosso’ che rapì Aldo Moro e uccise i suoi cinque uomini di guardia in via Fani? Anche quelli indossavano divise uguali. Cosa molto rischiosa, perché, in caso di inseguimento, sarebbero stati individuati più facilmente, ma che consentiva loro di riconoscersi al momento dell’assalto e di non spararsi addosso vicendevolmente. Il che dimostra, a sua volta, che all’operazione presero parte non solo dei ‘rivoluzionari’, ma anche altri specialisti di diversa provenienza, che probabilmente sapevano sparare meglio, ma che non erano per niente ‘rivoluzionari’, tant’è che erano sconosciuti agli altri. Anche in quel caso resta da scoprire chi fu l’organizzatore che mise insieme i diversi aspetti del puzzle. Da allora sono passati 24 anni. E si trattava, in fondo, di fermare l’ingresso dei comunisti al governo in una delle province lontane degli Stati Uniti.
Si può immaginare quanto tempo ci vorrà perché la vera storia dell’11 settembre emerga alla superficie. In questo caso, come ricorda l’impressionante citazione nell’ultima pagina, la posta in gioco era, ed è, il dominio del pianeta. Anche questa non è una supposizione. È scritta, nero su bianco, in un documento (il «Progetto per il Nuovo Secolo Americano») che porta la firma di quasi tutti i membri dell’attuale amministrazione americana. E che fu scritto molto tempo prima dell’11 settembre 2001, alla metà degli anni ’90.
Scrivevano così, allora, questi signori, in un momento in cui il trionfo mondiale degli Stati Uniti già non poteva essere messo in discussione. «[…] Il processo di trasformazione, anche se conduce a un cambiamento rivoluzionario, sarà probabilmente lento, in assenza di un evento catastrofico e catalizzatore, come una nuova Pearl Harbor». Dove stavano guardando i neocons che scrivevano queste righe tremende? Qual era la sfera di cristallo in cui scrutavano i destini del pianeta? E perché mai, essendo i vincitori incontrastati nella grande battaglia della guerra fredda, sentivano il bisogno di altri ‘cambiamenti rivoluzionari’? Non si è mai visto un giocatore di scacchi che, avendo già vinto la partita, si alzi all’improvviso e dia un calcio alla scacchiera, rovesciandola. O la stavano perdendo?
E come spiegare la più impressionante falsificazione elettorale della storia degli Stati Uniti, quella che Luciano Canfora definisce un «colpo di Stato elettorale» e che Michael Moore, senza mezzi termini, definisce una truffa, organizzata con largo anticipo, che togliendo il diritto di voto a decine di migliaia di elettori neri della Florida, ha portato al potere il perdente? Un anno prima dell’11 settembre, lo stesso anno del crollo della Enron e di WorldCom, nel pieno del disastro di Wall Street?
Grazie a questo certosino lavoro di raccolta, una specie di abito a toppe, fatto di ritagli di verità, ma interamente basato su fonti rigorosamente controllate, tutti questi interrogativi diventano palpabili e terrificanti.
Siamo infatti di fronte non a ipotesi ma a fonti che possono essere tutte definite ‘ufficiali’. Sia perché quasi sempre sono fonti governative, e nel senso più lato, notizie pubblicate e non smentite da organi di stampa tanto autorevoli da poter essere considerati, spesso a ragione, fonti del potere. Oppure (più raramente) da media che, pur essendo critici e indipendenti rispetto ai poteri, hanno conservato un tale prestigio da non poter essere accusati di preconcette parzialità. Intendo dire con ciò che non c’è un solo giornalista serio che, dopo aver letto queste pagine, possa chiudere il volume con un’alzata di spalle dicendo a se stesso che si tratta di ‘opinioni’.
Naturalmente questa accurata e metodica ricerca di dati non esaurisce il campo. Spezzoni dei Servizi segreti di un pugno di paesi, a cominciare da quelli degli Stati Uniti, possiedono certamente molte altre informazioni al riguardo. Ma – è questo il punto – non li rendono e non li renderanno mai noti al grande pubblico, e nemmeno al pubblico degli esperti, dei giornalisti, degli accademici.
Per altro tutto questo lavoro, alla fine dei conti, è già una prova: la prova della ramificata serie di operazioni di diversione che sono state messe in atto per evitare che la verità dell’accaduto emergesse alla superficie. Non è stato Osama bin Laden a fare tutto questo. Non da solo. Da solo non poteva. Ce lo ha ricordato anche il generale Pervez Musharraf, presidente del Pakistan.
E allora perché l’hanno fatto?
Viene alla mente il dialogo tra il presidente Truman e il suo segretario di stato dell’epoca, Dean Acheson. A Truman, che si chiedeva angosciato come armare fino ai denti gli Stati Uniti, per fare fronte alla minaccia sovietica, di fronte a un’opinione pubblica americana che non voleva, Acheson rispose: «Non c’è che un modo, signor presidente: terrorizzare gli americani». L’ha ricordato Gore Vidal in un suo scritto profetico, pubblicato tre anni prima delle Twin Towers, come se stesse leggendo il «Progetto per il Nuovo Secolo Americano». E c’è un passaggio del suo romanzo L’età dell’oro (scritto anch’esso molto prima dell’11 settembre), dove questa idea si riaffaccia terribile e semplice. È il dialogo tra due protagonisti del romanzo, proprio nei mesi che precedettero l’entrata in guerra degli Stati Uniti contro il Giappone. Regnava Franklin Delano Roosevelt.
Uno è il più vicino consigliere del presidente, l’altra è la proprietaria di un grande giornale, entrambi realmente esistiti; e anche il dialogo, come Gore Vidal lascia capire, non è solo frutto della sua fantasia di artista.

«[…] Nessuno dei nostri figli [...] combatterà mai in una guerra straniera, a meno che non veniamo attaccati».
Caroline strizzò gli occhi: «Tutto questo è davvero temerario».
«È il destino a decidere quello che va fatto, ne sono convinto. Comunque non si può andare in guerra senza che il popolo che hai dietro sia unito. Bè, neanche si avvicina ad esserlo, neanche se continuiamo a perdere nave dopo nave per colpa dei nazisti e nessuno batte ciglio». Quindi dobbiamo prendere un bel colpo e poi...
Si fermò. «Poi cosa?».
«Poi ci muoviamo e prendiamo tutto».
«Cos’è tutto?».
«Il mondo. Che altro c’è da prendersi?».

 

Marina Montesano, Mistero americano. Ipotesi sull’11 settembre,
Dedalo, Bari, 2004, pp. 200, ISBN 88-220-5342-7, € 15,00