Franco Cardini
(Professore
ordinario di Storia medievale allUniversità degli Studi di Firenze)
IL CAVALLO DI DON CHISCIOTTE
«Ancora una volta ho montato il cavallo
di Don Chisciotte». Scriveva più o meno così ho smarrito la citazione
esatta, che pur mi ero appuntato da qualche parte il dottor Ernesto Guevara
de la Serna, argentino di quella Rosario tanto cara alle memorie dei più poveri
tra gli italiani, alla vigilia di allontanarsi da Cuba nellottobre del
1965. E a Cuba il comandante Ernesto Guevara non sarebbe più tornato: si sarebbe
inforestato altrove, dallAfrica alla Bolivia, alla ricerca un po
come il suo modello di donzelle da salvare, di draghi da abbattere, di
castelli incantati da liberare dallincantesimo.
Mi piacerebbe scrivere, per il «Che», qualcosa come il Llanto
di Federico García Lorca per il torero Ignazio Mejias: quel lungo poema
disperato e feroce (A las cinco de la tarde) con il quale la mia generazione
ha imparato ad amare la Spagna repubblicana. Per la verità, alla mia generazione,
Federico García e tutto laffaire spagnolo fu a suo tempo
presentato in modo a dir poco ingannevole; del resto, fin da allora, io ero
un ragazzino appartato, una voce fuori dal coro. La mia Spagna la desolata
Meseta dai pali scheletriti di telefono e dalla lunga, stretta carretera
de Francia che lattraversava; i paesi polverosi preceduti dalla sagoma
di legno rosso dellemblema della Falange, «lunica segnaletica
stradale spagnola»; le città che odoravano di gelsomino e dolio
fritto, dalle antiche mercerie che ostentavano scaffali di legno... era
differente da quella artificiale e artificiosa rivissuta dai miti culturali
della sinistra. Avevo passato la frontiera dei Pirenei sul pullman duna
gita scolastica, nel 54: e da allora mi ero andato ripetendo, e me lo
ripeto ancora, che quella, se io ho una patria, è la mia patria. I giardini
di Granada, i tori della corrida, la neve e il silenzio di Segovia dinverno,
lAlcazar di Toledo, Teresa dAvila... ed, ebbene sì, lIngegnoso
Hidalgo e il suo cavallo, quello stesso di Ernesto Guevara.
Oggi non so intrupparmi tra coloro che piangono la sua morte per il vuoto politico
che essa lascia, né accodarmi a chi rileva con soddisfatta pedanteria
comegli labbia cercata in un esodo dalla sua isola chera piuttosto
a quel che pare lesilio politico di un testimone ormai scomodo, né
accostarmi a chi pur affascinato dal coraggio e dalla trasparenza morale
del personaggio ricorda con Santa Romana Chiesa che non poena, sed
causa facit martyrem e diffida gli ingenui e i sentimentali dallaffidarsi
a falsi miti invitandoli a individuar con sicura visione critica al di
là della polvere scintillante delleroismo la barbarie della causa
servita dal «Che» e lo squallore dei modelli sociali che egli avrebbe
voluto veder applicati nei paesi che andava cercando di «liberare».
Resto una volta di più, anche stavolta, una voce fuori dal coro. O dai cori.
So bene che, con il rigore che dovrebbe distinguere chi si occupa di storia,
avrei pur il dovere e gli strumenti adatti a farlo di scandagliare
il dark side del comandante Guevara. Era davvero, la sua, una entreñable
trasparencia, come canta la bella canzone composta quando, da chi?
per la sua morte e che, ripetuta da tante chitarre dei ragazzi e delle
ragazze di sinistra nei corridoi delle facoltà occupate, ha subito conquistato
tanti fra noi «dellaltra parte»? Ma di quale «altra
parte», poi? Sembra proprio che la gente come il «Che», in
Africa per esempio, non abbia scritto esemplari pagine di storia: anzi, che
si sia ridotta a far da gurka alle mire dellimperialismo sovietico
travestito, al solito, da liberatore degli oppressi. Ma scrissero forse a loro
volta belle pagine, qualche anno fa, i parà francesi in Algeria o i mercenari
dellUnion Minière in Congo? Eppure in quelle occasioni qualche sparuto
gruppo di scellerati e io mi trovavo tra essi uscì ancora una
volta dal coro delle esecrazioni e trovò che, magari senza saperlo, parà
e mercenari difendevano forse una realtà più alta che non gli interessi di qualche
pied-noir e di alcune società per azioni. Strano destino, quello di noialtri
ragazzi che possono bensì invecchiare ma che non riescono a crescere: strano
destino segnato dalle canzoni. Anche noi abbiamo le nostre chitarre: forse sono
un po più scordate, forse un po meno chic, ma «Agatino»
e «Zolfo» cantano e suonano bene, da goliardacci eternamente destinati
a rimaner tali. Lavrà davvero scritta Pino Caruso, quella canzone che
comincia Son morto nel Katanga, dedicata a un oscuro mercenario pugliese
crepato nel Basso Congo, lì, senza un soldo, bistrattato dalle virtuose zitelle
dellO.N.U., a pancia allaria con solo una miserabile oncia di tabacco
nel tascapane dopo aver salvato tanta gente e non solo missionari e infermiere,
non solo suore, non solo bianchi... dalle amorevoli e umanitarie intenzioni
degli orfanelli di Patrice Lumum-ba? Eppure, il «Che» è stato al
fianco dei lumumbisti: sotto il profilo ideale, quanto meno.
La conosco, la conclusione degli avveduti e maturi cultori della ragion politica,
quella che sta o di qua o di là. Sei di sinistra? E allora inghiotti la barbarie
dei lumumbisti e sopporta lo sterminio dei kulaki: sono un prezzo relativamente
basso per la liberazione dellumanità dalle sue catene. Sei di destra?
Cacciati in tal caso in testa che i gorilas che hanno ammazzato il «Che»
e poi si sono fatti fotografare trionfanti accanto al suo cadavere saranno anche
dei volgari macellai, ma hanno difeso la tua stessa libertà, così come
tu lo voglia o no fanno i grossolani yankees in Vietnam lottando
contro gli eroici Vietcong. Scegli, perdinci, da che parte stare: deciditi a
ragionare in termini politici una buona volta, anziché sceglier sempre sulla
base delletica o dellestetica. Altrimenti, dal prode Ettorre al
colonnello Lawrence, continuerai a collezionar falsi miti e autentiche sconfìtte.
LAvventuriero combatte sempre contro i mulini a vento. Il suo vero fine,
la sua profonda Verità, la sua intima vocazione, è il Nulla. È lì che finiscono
i guerrieri omerici, i cavalieri arturiani, i samurai, i «proscritti»
di von Salomon. Il cavallo di don Chisciotte non porta da nessuna parte. E il
dottor Guevara lo sapeva benissimo: al punto tale che, in realtà, lo inforcò
solo quanto si rese conto che, nello scontro con il dottor Castro per la leadership,
stava uscendo perdente.
Ammiratore di Max Weber il che non mimpedisce di «tifare»
per Werner Sombart... , so bene che il disincanto è un grande maestro
di verità storiche. E forse le cose stanno appunto come gli avveduti e maturi
cultori della ragion politica suggeriscono. Non è il colonnello Lawrence, è
il deserto che amiamo; non è il «Che», è loceano delle bandiere
rosse; in fondo a tutto cè sempre il richiamo delle «belle idee
per cui si muore», come recitava quellaltro decalogo nihilista che
è il «Manifesto dei futuristi».
Tutto ciò è forse vero. Eppure i dubbi del mio imperfetto cristianesimo mi hanno
sempre fatto avvicinare la Croce al Nulla; e dal Venerdì alla Domenica successivi
al primo plenilunio di primavera mi vado ripetendo sempre, ogni anno da quando
ho creduto di cominciar a capire, che il nostro è un Dio Perdente. Non riesco
a pensar alle carceri castriste, non so concentrarmi sui reiterati fallimenti
delle zafras rivoluzionarie; mi tornano alla mente e alla fantasia le
folle smagrite dei diseredati dellAmerica Latina, i forzati della terra,
i veri poveri che ai miei occhi di cristiano se io riuscissi davvero
ad esser cristiano dovrebbero esser più belli di come appariva Dona Dulcinea
del Toboso, la più leggiadra Donzella della Cristianità, allIngegnoso
Hidalgo. È per salvare quelle donzelle, per spezzare lincanto capitalista
non aveva già adombrato qualcosa del genere, nella Germania dellOttocento,
Richard Wagner col mito delloro dei nibelunghi, in anni non diversi da
quelli in cui Karl Marx scriveva Das Kapital? , che Ernesto Guevara
de la Serna ha inforcato il cavallo di don Chisciotte. Velleitario perdente,
rivoluzionario fallito, diranno alcuni, forse molti; e chi non lo dice magari
lo pensa, e ha ragione. Ma non sono queste, al conto finale, le cose davvero
importanti. Hasta siempre, comandante.
(inedito rielaborato da un appunto del 1967)
da Franco Cardini, Scheletri nellarmadio. Vecchie e nuove prove di terrorismo intellettuale, Akropolis/La Roccia di Erec, Firenze, Novembre 1995