"METODO", N. 19/2003

Franco Cardini
(Professore ordinario di Storia medievale all’Università degli Studi di Firenze)

IL CAVALLO DI DON CHISCIOTTE

«Ancora una volta ho montato il cavallo di Don Chisciotte». Scriveva più o meno così – ho smarrito la citazione esatta, che pur mi ero appuntato da qualche parte – il dottor Ernesto Guevara de la Serna, argentino di quella Rosario tanto cara alle memorie dei più poveri tra gli italiani, alla vigilia di allontanarsi da Cuba nell’ottobre del 1965. E a Cuba il comandante Ernesto Guevara non sarebbe più tornato: si sarebbe inforestato altrove, dall’Africa alla Bolivia, alla ricerca – un po’ come il suo modello – di donzelle da salvare, di draghi da abbattere, di castelli incantati da liberare dall’incantesimo.
Mi piacerebbe scrivere, per il «Che», qualcosa come il Llanto di Federico García Lorca per il torero Ignazio Mejias: quel lungo poema disperato e feroce (A las cinco de la tarde) con il quale la mia generazione ha imparato ad amare la Spagna repubblicana. Per la verità, alla mia generazione, Federico García e tutto l’affaire spagnolo fu a suo tempo presentato in modo a dir poco ingannevole; del resto, fin da allora, io ero un ragazzino appartato, una voce fuori dal coro. La mia Spagna – la desolata Meseta dai pali scheletriti di telefono e dalla lunga, stretta carretera de Francia che l’attraversava; i paesi polverosi preceduti dalla sagoma di legno rosso dell’emblema della Falange, «l’unica segnaletica stradale spagnola»; le città che odoravano di gelsomino e d’olio fritto, dalle antiche mercerie che ostentavano scaffali di legno... – era differente da quella artificiale e artificiosa rivissuta dai miti culturali della sinistra. Avevo passato la frontiera dei Pirenei sul pullman d’una gita scolastica, nel ’54: e da allora mi ero andato ripetendo, e me lo ripeto ancora, che quella, se io ho una patria, è la mia patria. I giardini di Granada, i tori della corrida, la neve e il silenzio di Segovia d’inverno, l’Alcazar di Toledo, Teresa d’Avila... ed, ebbene sì, l’Ingegnoso Hidalgo e il suo cavallo, quello stesso di Ernesto Guevara.
Oggi non so intrupparmi tra coloro che piangono la sua morte per il vuoto politico che essa lascia, né accodarmi a chi rileva con soddisfatta pedanteria com’egli l’abbia cercata in un esodo dalla sua isola ch’era piuttosto a quel che pare l’esilio politico di un testimone ormai scomodo, né accostarmi a chi – pur affascinato dal coraggio e dalla trasparenza morale del personaggio – ricorda con Santa Romana Chiesa che non poena, sed causa facit martyrem e diffida gli ingenui e i sentimentali dall’affidarsi a falsi miti invitandoli a individuar con sicura visione critica – al di là della polvere scintillante dell’eroismo – la barbarie della causa servita dal «Che» e lo squallore dei modelli sociali che egli avrebbe voluto veder applicati nei paesi che andava cercando di «liberare».
Resto una volta di più, anche stavolta, una voce fuori dal coro. O dai cori. So bene che, con il rigore che dovrebbe distinguere chi si occupa di storia, avrei pur il dovere – e gli strumenti adatti a farlo – di scandagliare il dark side del comandante Guevara. Era davvero, la sua, una entreñable trasparencia, come canta la bella canzone composta – quando, da chi? – per la sua morte e che, ripetuta da tante chitarre dei ragazzi e delle ragazze di sinistra nei corridoi delle facoltà occupate, ha subito conquistato tanti fra noi «dell’altra parte»? Ma di quale «altra parte», poi? Sembra proprio che la gente come il «Che», in Africa per esempio, non abbia scritto esemplari pagine di storia: anzi, che si sia ridotta a far da gurka alle mire dell’imperialismo sovietico travestito, al solito, da liberatore degli oppressi. Ma scrissero forse a loro volta belle pagine, qualche anno fa, i parà francesi in Algeria o i mercenari dell’Union Minière in Congo? Eppure in quelle occasioni qualche sparuto gruppo di scellerati – e io mi trovavo tra essi – uscì ancora una volta dal coro delle esecrazioni e trovò che, magari senza saperlo, parà e mercenari difendevano forse una realtà più alta che non gli interessi di qualche pied-noir e di alcune società per azioni. Strano destino, quello di noialtri ragazzi che possono bensì invecchiare ma che non riescono a crescere: strano destino segnato dalle canzoni. Anche noi abbiamo le nostre chitarre: forse sono un po’ più scordate, forse un po’ meno chic, ma «Agatino» e «Zolfo» cantano e suonano bene, da goliardacci eternamente destinati a rimaner tali. L’avrà davvero scritta Pino Caruso, quella canzone che comincia Son morto nel Katanga, dedicata a un oscuro mercenario pugliese crepato nel Basso Congo, lì, senza un soldo, bistrattato dalle virtuose zitelle dell’O.N.U., a pancia all’aria con solo una miserabile oncia di tabacco nel tascapane dopo aver salvato tanta gente – e non solo missionari e infermiere, non solo suore, non solo bianchi... – dalle amorevoli e umanitarie intenzioni degli orfanelli di Patrice Lumum-ba? Eppure, il «Che» è stato al fianco dei lumumbisti: sotto il profilo ideale, quanto meno.
La conosco, la conclusione degli avveduti e maturi cultori della ragion politica, quella che sta o di qua o di là. Sei di sinistra? E allora inghiotti la barbarie dei lumumbisti e sopporta lo sterminio dei kulaki: sono un prezzo relativamente basso per la liberazione dell’umanità dalle sue catene. Sei di destra? Cacciati in tal caso in testa che i gorilas che hanno ammazzato il «Che» e poi si sono fatti fotografare trionfanti accanto al suo cadavere saranno anche dei volgari macellai, ma hanno difeso la tua stessa libertà, così come – tu lo voglia o no – fanno i grossolani yankees in Vietnam lottando contro gli eroici Vietcong. Scegli, perdinci, da che parte stare: deciditi a ragionare in termini politici una buona volta, anziché sceglier sempre sulla base dell’etica o dell’estetica. Altrimenti, dal prode Ettorre al colonnello Lawrence, continuerai a collezionar falsi miti e autentiche sconfìtte. L’Avventuriero combatte sempre contro i mulini a vento. Il suo vero fine, la sua profonda Verità, la sua intima vocazione, è il Nulla. È lì che finiscono i guerrieri omerici, i cavalieri arturiani, i samurai, i «proscritti» di von Salomon. Il cavallo di don Chisciotte non porta da nessuna parte. E il dottor Guevara lo sapeva benissimo: al punto tale che, in realtà, lo inforcò solo quanto si rese conto che, nello scontro con il dottor Castro per la leadership, stava uscendo perdente.
Ammiratore di Max Weber – il che non m’impedisce di «tifare» per Werner Sombart... –, so bene che il disincanto è un grande maestro di verità storiche. E forse le cose stanno appunto come gli avveduti e maturi cultori della ragion politica suggeriscono. Non è il colonnello Lawrence, è il deserto che amiamo; non è il «Che», è l’oceano delle bandiere rosse; in fondo a tutto c’è sempre il richiamo delle «belle idee per cui si muore», come recitava quell’altro decalogo nihilista che è il «Manifesto dei futuristi».
Tutto ciò è forse vero. Eppure i dubbi del mio imperfetto cristianesimo mi hanno sempre fatto avvicinare la Croce al Nulla; e dal Venerdì alla Domenica successivi al primo plenilunio di primavera mi vado ripetendo sempre, ogni anno da quando ho creduto di cominciar a capire, che il nostro è un Dio Perdente. Non riesco a pensar alle carceri castriste, non so concentrarmi sui reiterati fallimenti delle zafras rivoluzionarie; mi tornano alla mente e alla fantasia le folle smagrite dei diseredati dell’America Latina, i forzati della terra, i veri poveri che ai miei occhi di cristiano – se io riuscissi davvero ad esser cristiano – dovrebbero esser più belli di come appariva Dona Dulcinea del Toboso, la più leggiadra Donzella della Cristianità, all’Ingegnoso Hidalgo. È per salvare quelle donzelle, per spezzare l’incanto capitalista – non aveva già adombrato qualcosa del genere, nella Germania dell’Ottocento, Richard Wagner col mito dell’oro dei nibelunghi, in anni non diversi da quelli in cui Karl Marx scriveva Das Kapital? –, che Ernesto Guevara de la Serna ha inforcato il cavallo di don Chisciotte. Velleitario perdente, rivoluzionario fallito, diranno alcuni, forse molti; e chi non lo dice magari lo pensa, e ha ragione. Ma non sono queste, al conto finale, le cose davvero importanti. Hasta siempre, comandante.
(inedito rielaborato da un appunto del 1967)

da Franco Cardini, Scheletri nell’armadio. Vecchie e nuove prove di terrorismo intellettuale, Akropolis/La Roccia di Erec, Firenze, Novembre 1995