Daniele Capanelli
(Ricercatore
di diritto romano e storia del diritto
presso il Dipartimento di diritto privato U. Natoli dellUniversità
di Pisa)
MADRID-L’AVANA: LUOGHI
COMUNI, CONTRADDIZIONI, REALTÀ:
QUALCHE CONSIDERAZIONE SU UN RAPPORTO DIFFICILE
(Prima
parte)
Un riesame non
affrettato e superficiale della complessa relazione ispano-cubana, così come si
è venuta dipanando negli ultimi due secoli, potrebbe forse portare a qualche
conclusione sorprendente, nel senso di sfatare, almeno in parte, uno dei luoghi
comuni più duri a morire circa le pretese, costanti, reciprocamente rispettose
“relazioni speciali” tra Madrid e
L’Avana, le quali addirittura, secondo una valutazione del Partido Popular spagnolo, eccederebbero di gran lunga quelle che median entre dos gobiernos e, incluso,...
son usuales entre dos estados[1].
Non che qui si voglia sottostimare legami ovvii, ma solo collocarli, o
sforzarsi di farlo, nella giusta dimensione.
Va osservato,
anzitutto, che la questione del rapporto Spagna-Cuba non può esaurirsi, a ben
vedere, nell’analisi di una relazione semplicemente bilaterale, giacché‚ la
collocazione geografica dell’Antilla Maggiore e il rilievo dell’unica risorsa
cospicua di cui dispone, hanno suscitato nel tempo gli appetiti e, diciamo, un
eccesso di attenzioni da parte del colosso nordamericano, la cui importante
presenza nella storia anche culturale di Cuba naturalmente non è lecito
revocare in dubbio. Occorre piuttosto indirizzarsi, dunque, verso lo studio di
un rapporto prevalentemente triangolare (Washington-L’Avana-Madrid) dato il
peso obiettivo delle leggi geo-politiche, altrettanto ineludibili di quelle
della “gravitazione fisica” come
rimarcò John Quincy Adams a suo tempo[2].
Occorre peraltro aggiungere, ed è bene chiarire, che se per certi versi la
partecipazione statunitense alla vicenda dell’isola ha da essere deplorata, per
altri non fu certo accolta negativamente, sulla metà del secolo scorso, da
settori patriottici anche dell’esilio. Sarà opportuno ricordare che un Partido Anexionista, tra i cui esponenti
brilla il maestro di Martí, Rafael María Mendive, e al quale fa da pendant la Cuban League of the United States, è ben
presente nella lotta anti-coloniale, e che fin dal 1848 viene pubblicato a New
York un periodico (“La Verdad”) che
propugna, appunto, l’unione agli States.
La prima lobby statunitense di un
certo rilievo fu quella Orden de la
Estrella Solitaria cubana che nel 1852 appoggiò la candidatura di Franklyn
Pierce alla Casa Bianca. Risulta poi che, preparando gli sbarchi del 1850 e
1851, destinati, nei propositi, a innescare l’insurrezione anti-spagnola,
Narciso Lopez e il colonnello William Crittendeen, che finirà fucilato a Pinar
del Rio, reclutano in Louisiana e Kentucky centinaia di veterani della guerra
messicana, per affiancarli, in quelle sfortunate spedizioni, ai combattenti
indipendentisti. Nel 1848 viene disegnata la bandiera cubana, rimasta
inalterata da allora. Basterebbe darle un’occhiata per rendersi conto che quel
“rubín”, le “cinco franjas” e la “estrella”
ricordano fin troppo il vessillo dell’Unione. Il Partito Annessionista perde
slancio con gli anni, ma la sua presa rimane comunque considerevole fino a
tutta la “Guerra de los Diez Años”
(1868-1878), se è vero che nel 1869 gli insorti, guidati da Carlos Manuel de
Céspedes chiedono al Presidente Grant di riconoscerli e i guerriglieri di
Camagüey portano, significativamente, una coccarda che raffigura i colori di Cuba
e degli Stati Uniti[3].
I primi anni del ’900
recano in sorte alla nuova Cuba l’umiliazione dell’Emendamento Platt, inserito nella Costituzione e poi soppresso di
comune accordo nel 1934, nonché l’imposizione dell’affitto perpetuo agli USA
della base di Guantánamo (1903); tuttavia, qualsiasi studioso del periodo pur
minimamente imparziale non potrebbe non riconoscere che negli anni di
occupazione militare americana (1899-1902; 1909-1912) i proconsoli Wood e
Magoon non si limitarono all’ordinaria amministrazione, ma cercarono di gettare
le basi per un futuro meno inquieto del passato. Allora venne debellata la
febbre gialla (col decisivo apporto di Carlos Finlay), la riforma scolastica
divenne operante, furono create le prime infrastrutture e si cercò, con candore
tutto yankee, almeno di avviare il
superamento del consolidato “machismo”
e la promozione della donna. La provincia dell’Avana venne provvista di
ferrovie, fu dettata la legge sulla proporzionale; infine, con la creazione
della Guardia Rural, che peraltro non
comprendeva molti combattenti mambises,
si formò il primo nucleo del futuro esercito cubano[4].
Gli occupanti cercarono in definitiva di fare del proprio meglio applicando le
istruzioni del Presidente Mc Kinley che, in riferimento ai cubani, ebbe a
scrivere, con indubbio paternalismo ma altrettanta sincerità: “...poneteli in condizione di agire da soli,
nel modo migliore che potrete. Noi desideriamo fare per loro tutto quello che è
nelle nostre possibilità ed andarcene dall’isola, senza incidenti, il più
presto possibile”[5].
Al dinamismo
dell’iniziativa gringa, tra l’altro
concretatosi in diverse offerte di acquisto dell’isola (si ricorderà in
particolare quelle dei presidenti Polk e Buchanan e il Manifesto di Ostenda, del 1852), venne contrapponendosi, fino al
memorabile rovescio del ’98, una gestione spagnola del territorio d’oltremare
altrettanto rapace quanto inerte e autoritaria. Madrid respinse più volte con
sdegno le avances degli Stati Uniti,
ma nulla o quasi fece mai per legittimarsi politicamente agli occhi della
popolazione indigena, costituita per il 45% da neri e mulatti. Tutto ciò che si
voleva era promuovere i commerci e proteggere le piccole imprese artigianali
che gli immigrati via via moltiplicarono ma, soprattutto, spremere le piantagioni,
governandole con pugno di ferro. Per questo, fu soffocata nel sangue, tra le
altre, la rivolta servile del 1844, che capeggiò a Matanzas “Plácido” ovvero Gabriel de la Concepción
Valdés. Beninteso, il disegno dei governanti fu in qualche modo insidiato da
ostacoli obiettivi, per esempio l’agguerrita concorrenza nordamericana (nel
1850 la Confederazione già controllava 1/3 degli scambi con Cuba) ma ciò non
stimolò ad abbandonare la torpida gestione dell’esistente, anzi, continuò a
prevalere, nei politici e negli atteggiamenti della corona una miopia pari
all’assurda tenacia con cui a lungo si negò a gran parte dei sudditi più
partecipazione e più autonomia. In proposito, non è forse di dominio comune un
dato illuminante. Mentre dal 1809 al 1878 si alternano al governo di Cuba, in
un quadro di accentuata instabilità, una decina di Capitanes Generales, in maggioranza schiavisti e conservatori, dal
1825 Madrid governa Cuba con la Legge Marziale e ammette solo il c.d. Partido Incondicional Español (nome che
è tutto un programma) cui dà voce l’antico “Diario
de la Marina”, parto fortunato di un gallego illustre, Isidro Araujo de
Lire[6].
Solo dopo la “Guerra Chica” (1878-1879) le autorità
spagnole consentiranno un relativo pluralismo, all’interno del quale troverà
spazio il Partido Liberal,
indipendentista. Il governo metropolitano assegnerà allora a Cuba 40 deputati,
ripartendo l’isola in 6 province, in un soprassalto di peraltro tardiva
resipiscenza. La successiva crisi del latifondo zuccheriero, proprio mentre in
Europa prende piede la coltura della barbabietola, porterà nel 1888
all’abolizione della schiavitù. Anche questo, tuttavia, non impedirà che in un
clima radicalizzato si arrivi rapidamente alla resa dei conti. I patrioti di
Maceo, Gómez e Martí insorgono nel 1895 e tre anni più tardi gli Stati Uniti,
in piena isteria bellicista, chiuderanno la partita, sbaragliando dopo qualche
settimana l’esercito coloniale spagnolo e l’incauta flotta nemica.
Anche la Terza Guerra
d’Indipendenza cubana, sulla quale credo valga la pena di soffermarsi
brevemente, prova quale vuoto di iniziative serie e concludenti propositi
nascondessero in realtà le declamazioni enfatiche sulla “siempre fiel isla de Cuba” e sulla volontà “inquebrantable” degli spagnoli di “defender la integridad de la Patria” (fatta eccezione,
naturalmente, per l’interregno dello spietato ma almeno capace gen. Valeriano
Weyler y Nicolau, non per nulla di ascendenza prussiana). Di fatto, i coloniali
sono sulla difensiva già prima dell’intervento esterno, e, oltretutto, su 60.000
morti e feriti, di un totale di 200.000 effettivi, solo 2.400 cadono vittime
della pungente ma non irresistibile guerriglia mambisa[7]. Tutti gli
altri li abbatte la febbre gialla che imperversa anche per la disorganizzazione
e l’inettitudine dei comandi. D’altra parte, l’Ammiraglio Cervera e la sua
squadra, fragile e raccogliticcia, vengono mandati allo sbaraglio con assoluta
irresponsabilità dal Ministro della Marina Bermejo al quale, poco prima di
lasciare Cadice lo stesso Cervera, che non si fa illusioni, scrive: “Creo entrever... que se persiste en la idea
de que la escuadra vaya a Cuba y me parece una aventura que puede costarnos muy
cara”[8].
Il che puntualmente si verificherà nell’impari scontro in acque santiaghine del
3 luglio 1898[9].
Naturalmente non
mancano gesta valorose dei combattenti spagnoli, sia regolari che della Guardia Civil. Basterebbe rammentare,
per tutte, la strenua difesa della collina di San Juan, in Oriente, da parte
delle truppe del generale Linares, contro la preponderante forza d’urto yankee[10].
Ancor più per questo, si fatica a intendere perché la Spagna abbia gettato via
prima politicamente, poi militarmente, quanto meno la possibilità di difendere
Cuba in modo più dignitoso, anziché rassegnarsi ad una disfatta ancor più
cocente perché subita ad opera di un grande paese di quell’area anglosassone
con la quale, nella prospettiva storica, non è mai corso buon sangue.
Tutto ciò dopo che,
diversamente da quanto accaduto nel 1819 con la Florida, più volte rifiuta,
come visto, Madrid di cedere l’isola per cifre non proprio irrilevanti. Ne
attenua le perplessità, anzi le aumenta, la constatazione che un anno dopo
l’inizio della guerra il rapporto numerico tra coloniali e ribelli è di 4 a 1
(125.000 regolari più 60.000 volontari contro 45.000 cubani), costituendo
questo un vantaggio inestimabile del quale il gen. Martínez Campos,
predecessore di Weyler, come pure i successori, non sanno fare buon uso[11].
L’evidente sfasatura
tra proclami solenni e fatti, se non autorizza a sopravvalutare quanto
accomuna, materialmente e spiritualmente, la Spagna a Cuba, neppure può far
concludere, d’altro canto, che, sotto certi, profili la “relación especial” di cui si è detto abbia funzionato, non
foss’altro per essere stata Cuba l’ultimo territorio ispano-americano a
rendersi indipendente, assieme a Puerto Rico, che però ebbe da subito un
destino diverso.
Così, se la Spagna
rinunciando a Cuba perse anche l’onore, i laboriosi spagnoli dell’isola,
migliori dei loro governanti, seppero conservare proprietà e commerci, avendoli
in parte riconvertiti. È impressionante in effetti la lista di terre, immobili,
esercizi ancora gestiti da spagnoli dopo l’indipendenza. Sono migliaia di
piccole imprese, edifici urbani, ettari (o meglio, “vegas”) di terre produttive. Quanto al costume, le abitudini e le
tradizioni metropolitane continuarono a impregnare di sé, dopo la guerra, i
molti aspetti della vita quotidiana[12].
L’assenza di risentimenti della popolazione locale, malgrado certe inevitabili
asprezze del conflitto appena terminato, permise, d’altra parte, un forte
incremento del flusso migratorio spagnolo a Cuba fra l’inizio del secolo e il
1920. La prosperità dell’Antilla, che vendeva zucchero, praticamente in regime
di monopolio, ad un’Europa afflitta da mille problemi e, ben presto, da una
guerra devastante, fece sì che Cuba attirasse soprattutto contadini affamati di
terra e lavoro e giovani desiderosi di sottrarsi ai contraccolpi del conflitto
sociale o ad una fine certa nelle guerre africane (“Aquello era un matadero de españoles”)[13].
La gran parte del 48% di emigrati che approdarono a Cuba veniva da Asturie e
Galizia, regioni dove la parcellizazione agricola era tanto capillare da non
permettere la sopravvivenza a famiglie tradizionalmente numerose (“Eramos muchos hermanos y había que emigrar
porque no podíamos subsistir”). Il “minifundio”
gallego, formatosi anche in conseguenza di quella legge delle Cortes di Cadice
che nel 1812 abolì la “vinculación”
(cioè il regime per il quale il padre, patriarca rurale, trasferiva all’erede
maschio primogenito l’intero patrimonio) riguardò, all’inizio del ’900, i 2/3
della proprietà agricola, allo stesso modo che nelle Asturie, dove
l’alternativa al lavoro nei campi, quando questo vi fosse, era il penoso impiego
in miniera (“La causa de marcharme a Cuba
fue el no querer trabajar en las minas”)[14].
L’emigrazione oltre Atlantico di interi nuclei familiari e parentali dette
luogo ad una piccola, tipica epopea, che coinvolse oltre 100.000 persone, delle
quali 98.000 giunte a Cuba nel solo 1920. Vi recitò un ruolo decisivo anzitutto
quello tra i fratelli che, allontanatosi per primo dalla Spagna, chiamava in
seguito presso di sé i nipoti e, via via, buona parte del clan familiare (“tenía un tío en La Habana” è una delle
frasi più ricorrenti nelle narrazioni degli emigrati)[15].
In secondo luogo, il c.d. indiano
ovvero agente migratorio di ritorno e, a un livello più basso, i reclutatori,
variamente definiti (“ganchos”, “arregladores”, “garroteros”).Lo zelo degli emigrati che, specie nel caso dei bodegueros, spesso travalicò in brutale
stakanovismo (sicché il termine passerà ad indicare per antonomasia lo spagnolo
che punta a far soldi e non concede respiro né a sé‚ né ai dipendenti) arricchì
la comunità ispano-cubana quanto bastò per finanziare “Centros” e “Sociedades”
in grado di fornire gratuitamente i servizi più necessari. Ognuna di tali
entità richiamava la “aldea”
(villaggio), il “municipio” o la “comarca” (territorio comprensivo di più
municipi) di origine degli affiliati, quasi a ribadire simbolicamente un
rapporto con la piccola patria di ciascuno che viveva anche oltre l’Oceano.
Basti qui citare alcuni nomi di Sociedades
galiziane: Ferrol y su comarca, Hijos del Ayuntamiento de Radeiro, Rivera del Tambre y Valle de la Malía, Unión Barcalesa ecc... Dei centri e
Società si fecero portavoce organi di stampa quasi esclusivamente finanziati da
gallegos, non sempre destinati al solo pubblico dell’emigrazione (“Vida Gallega”, “Avisador Galaico”, “Aires de
Miña Terra”, “Santos y Meigas”,
ma anche “Diario de la Marina”, già
ricordato, che ben presto ebbe diffusione nazionale). Queste attività intense e
feconde, cui dettero il loro apporto baschi, canarî e andalusi, l’abbondanza di
circolante nell’isola e il cospicuo ammontare delle rimesse, indussero la gente
semplice rimasta al di qua del “charco”
a idealizzare Cuba, come prova la frase che segue, apparsa in uno studio di
qualche tempo fa: “La vida en Cuba era
fácil; todo el mundo podía prosperar ...” “En aquel tiempo,
los barcos venían llenos para Cuba..., los españoles cubanos... que llevaban ya
años en Cuba, iban a pasear a España y llevaban cadenas de oro...y gastaban
mucho dinero, y la gente dice... ahí viene el americano... (y)... todo el mundo
quería venir para acá”[16].
Cuba, insomma, era il luogo d’approdo che avrebbe potuto
cambiare la vita di molti, il paese della “Danza
de los Millones”, come si diceva, i cui primi presidenti, Manuel Estrada
Palma, José Miguel Gómez e Mario García Menocal s’ingegnarono a favorire in
ogni modo l’immigrazione e il giusto trattamento dei lavoratori, mediante leggi
che videro la luce tra il 1902 e il 1909 (Ley
y Reglamento de Inmigración, Ley de
Inmigración y Colonización, Ley
Arteaga).Tenuto conto di tale realtà, può immaginarsi quali conseguenze
catastrofiche ebbe, anche sul piano psicologico, prima la fine della guerra
europea, quindi la fatale Crisi del ’29. A dire il vero, se queste furono le
cause principali di una caduta prevedibile, non furono le sole. Il periodo
delle vacche grasse aveva portato all’accumulo di risorse mal gestite, o
dilapidate per imperversare di una corruzione sfrenata, che risaliva ai tempi
della colonia. Espressioni come “Si vives
como Vives vivirás” (il Capitán
General Dionisio Vives, Governatore di Cuba nella prima metà del XIX
secolo, si segnalò, in effetti, per la finanza allegra) o “chivar con saña” (che equivale a “corruzione sfrenata”, laddove il
“chivo” è il guadagno illecito) o definizioni come “Presidente de la buena vida”, coniata per José Miguel Gómez[17]
possono dare l’idea di un fenomeno altrettanto reiterato e inevitabile quanto i
cicloni tropicali e al quale perciò il cubano finisce per guardare anche con
ironica rassegnazione (Carlos Franqui lo ha sottolineato, osservando come alle
vote quest’atteggiamento si riveli in definitiva una preziosa valvola di sfogo)[18].
La Grande crisi, definita “mortal” da un emigrante dell’epoca[19],
provocò un crollo del tenore di vita (-20% dal 1925 al 1933) e colpì duramente
gli interessi ispano-cubani. L’entità del danno la si può meglio intendere
considerando che allora gli immigrati controllavano l’80% degli esercizi
commerciali e alberghieri e il 35% degli zuccherifici[20],
formando 1/4 della popolazione complessiva.
Gli effetti di tanta
caduta non si fecero attendere. Per un verso, il flusso migratorio calò dal
48,46% del 1920 al 10% appena del periodo 1928-1933. D’altra parte, una
deplorevole reazione xenofoba prese corpo sotto la dittatura di Gerardo
Machado. Venne lanciata la parola d’ordine “Hay
que cubanizar a Cuba” altrettanto facilmente demagogica quanto singolare in
un paese nel quale il 40% degli immigrati aveva dato vita a matrimoni misti
(stando a un classico detto popolare “la
mulata fue el mejor invento de los españoles”)[21].
Nel novembre del 1933 il Dr. Ramón Grau San Martín, presidente per 4 mesi
appena, trovò il tempo di varare quella famigerata “Ley de Nacionalización del Trabajo” (più comunemente detta “del 50%”), con la quale la metà dei
posti di lavoro venivano riservati a cubani e, addirittura, la totalità delle
professioni[22]. In quegli
anni, molti ispano-cubani dovettero lasciare l’isola, percorrendo a ritroso il
cammino della speranza. Ecco un altro esempio, generalmente trascurato, di
quanto valgano i “legami fraterni”
tra Cuba e la Madre Patria, quando a qualcuno torna comodo dimenticarli! Fanno
seguito a questi eventi anni tormentati e convulsi. È l’epoca delle presidenze
che durano, talora, il breve volgere di qualche settimana (tanto per fare un
esempio, dall’agosto del ’33, caduta di Machado, al dicembre 1936 si succedono
6 capi di stato, tutti più o meno sotto tutela militare), delle elezioni
truccate (salvo, forse, quelle del 1939 e 1941), del “gatillo-alegre” e del terrorismo piccolo-borghese. Mentre i “pistoleros” dettano legge e nelle
Università fa parte dell’ordinaria amministrazione interrompere le lezioni a
colpi d’arma da fuoco; mentre l’impetuoso e stravagante Eduardo Chibás predica
invano dai microfoni della radio contro la società corrotta (poi, disperato, si
suiciderà clamorosamente il 5 agosto del 1951). Mentre, infine, gli USA in
parte pilotano gli eventi, in parte li subiscono, la comunità ispano-cubana
residua rimane ai margini delle contese civili, curando i commerci e la
produzione del 17% di zuccherifici ancora posseduti nel 1937 e, sul piano
politico, limitandosi a promuovere tre partitini di corto respiro (Acción Gallega, Partido Regionalista, Partido
Laborista). Gran parte dell’economia cubana è ora in mano agli Stati Uniti[23],
con i quali un astuto militare di seconda fila, il “mulato lindo” Fulgencio Batista Zaldívar, eletto presidente nel
1941 e confermatosi più tardi ricorrendo al c.d. “golpe de la sunsundamba” (marzo 1952) e alle
elezioni dell’anno seguente, sviluppa un’intensa collaborazione, peraltro già
collaudata durante la seconda guerra mondiale.
Quest’ultima, amara
ironia della storia, aveva propiziato un nuovo, impetuoso decollo economico,
subito vanificato dagli sprechi e dalla solita corruzione che con la seconda
presidenza Grau toccò estremi grotteschi[24].
La situazione non
cambiò, negli aspetti essenziali, durante il “batistato”, al termine del quale comunque, contrariamente a quanto
si crede, l’economia e la struttura sociale dell’isola erano tutt’altro che
quelle tipiche di un paese sottosviluppato e marginale. Studi autorevoli, in
particolare quelli di Leví Marrero, hanno confermato, sfatando un luogo comune,
che il paese si trovava, allora, ai primi posti in America Latina per livelli
di istruzione e spesa sanitaria, per infrastrutture e per certi indici di
consumo. Produceva 2/3 del cibo necessario, mentre il capitale locale
controllava il 60% del risparmio e gran parte degli oltre 2000 stabilimenti
industriali. I salari delle categorie di punta erano elevati, e le 65.000
imprese commerciali avevano un giro di affari di 2500 milioni di dollari[25].
I discendenti degli immigrati spagnoli contribuirono la loro parte alla
crescita, che pure non evitò diseguaglianze e problemi. Così, quando Castro, al
culmine della rivoluzione democratica degli anni ’56-’59, cacciò Batista dal
potere, subentrandogli al vertice dello stato, la ventata nazionalizzatrice
fece sì che quella comunità fosse tra le più penalizzate dalle confische.
Le proprietà
d’immobili, fabbriche e negozi, per un ammontare di 300 milioni di dollari[26]
furono cancellate con un tratto di penna e gli immigrati lasciarono in massa
Cuba per far ritorno in patria o stabilirsi nella Florida[27].
Da allora, per oltre
un quarto di secolo le relazioni tra Madrid e l’Avana si sono evolute in modo
altilenante. Nel corso degli Anni ’60, durante i quali fra errori, spropositi,
fughe in avanti e parziali retromarce, Castro e i suoi cercarono di affermare
un modello di società utopico e ultra-egualitario, l’attivo commerciale
spagnolo venne diminuendo mano a mano che Cuba, ben presto in piena crisi,
stringeva saldi rapporti col blocco sovietico.
Tra il 1965 e il 1975
le navi mercantili del vicino paese non viaggiarono all’Antilla, così come
aveva fatto la Compagnia Iberia nel 1963. D’altra parte, se nel 1959 la Spagna
era il 2° partner commerciale dell’isola, 20 anni dopo era scesa al 3° posto e
nel 1989 al 5°, precedendola l’URSS, il Giappone, la RDT e la Cecoslovacchia[28].
L’import-export tra i due paesi non ha mai deviato dalle caratteristiche di
fondo, nel senso che Madrid esporta alimenti (80%), più macchine e tecnologia,
ricavando in cambio quasi solo tabacco (90%) e zucchero[29].
Alcune intese hanno regolato questi movimenti: il “Modus Vivendi Comercial y de Pagos” del 23 agosto 1959, che riprese
il “Tratado Comercial y de Pagos” del
1953 e venne prorogato fino al 1972, quando un nuovo Accordo, di durata
triennale, fissò i termini dell’interscambio, fino all’ulteriore rinnovo del
1976[30].
L’insieme di questi
dati credo confermi, una vota di più, che la “relación especial” ha i suoi limiti. Non bastò infatti la nota
simpatia di Franco per i cubani, forse più che per Castro personalmente (e
comunque i due uscivano, per dir così, dal medesimo brodo di coltura, essendo
nota la simpatia fervente del giovane Fidel verso Mussolini e il falangismo)[31]
per ravvivare un rapporto fattosi problematico a seguito dei torti patiti dai
laboriosi “gallegos” per mano del
regime rivoluzionario. Oltretutto, la pauperizzazione dell’isola ha impedito
che i commerci lievitassero, come certo sarebbe potuto accadere in un contesto
del tutto diverso.
Non c’è gran che da
aggiungere sui rapporti ispano-cubani, che riacquistano dinamismo solo da
quando, nell’ottobre del 1982, i socialisti di Felipe González vanno al potere
a Madrid. A partire da allora, peraltro contro ogni apparentemente ragionevole
previsione, la convivenza, prima relativamente pacifica, lascia spazio ad una
intermittente conflittualità che, va detto subito, alimentano soprattutto i
cubani, talora con plateale disprezzo delle regole minime che dovrebbero
governare un’armoniosa relazione tra stati. Da parte spagnola, alle punture di
spillo dell’Avana si è quasi sempre risposto con una moderazione persino
eccessiva, nonché iniettando pesetas a milioni nelle sempre più esauste casse
cubane. Una rassegna degli episodi salienti aiuterà a meglio intendere
quest’aspetto:
Gennaio 1984: Fidel Castro “consiglia” alla Spagna di non entrare
nella NATO, lasciando capire che Cuba non resterebbe indifferente alla
soluzione opposta.
Luglio 1985: Il dittatore cubano
se la prende con il “Descubrimiento”,
la cui celebrazione solenne impegnerà l’intero mondo ispanico nella ricorrenza
del Quinto Centenario, tacciandolo per l’appunto di “fecha infausta y nefasta”.
Dicembre 1985: Funzionari
dell’Ambasciata cubana, sempre troppo affollata e troppo intrigante, tentano di
rapire, in pieno centro madrileno, l’esule Manuel Antonio Sánchez Pérez,
ex-Vice Ministro del Commercio Estero. Il contro-spionaggio spagnolo sventa
l’operazione. Ma i cubani non si danno per vinti e quattro mesi dopo spediscono
a Sánchez Pérez (e al pubblicista Carlos Alberto Montaner) due pacchi-bomba che
fortunatamente non esplodono[32].
Novembre 1986: González vola
all’Avana per chiedere la liberazione del prigioniero politico di origine
spagnola Eloy Gutiérrez Menoyo e “chiudere”
il Trattato sugli indennizzi ai cubano-spagnoli espropriati nel ’59. Di
passaggio, il Primo Ministro qualifica infelicemente Castro di “luchador por la libertad”.
Dicembre 1986: Il presidente del
Senato spagnolo, Félix Pons, non invita l’omologo cubano, se così lo si può
definire, alla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti ispano-americani, in
programma a Madrid. Castro replica definendolo “tipejo fascistoide” e un comunicato della Asamblea Nacional del Poder Popular cubano ricorre ai termini di “insolente”, “prepotente” e “reaccionario”.
Gli spagnoli consegnano la rituale nota di protesta all’Ambasciatore Oscar
García Fernández. Subito dopo, viene firmato il “Trattato sugli Indennizzi” e Castro libera Eloy Gutiérrez Menoyo.
Ottobre 1987: Le Cortes spagnole
approvano il Trattato di cui sopra. A fronte di un debito di 300 milioni di
dollari, moltiplicatosi almeno per 5 in 30 anni, il regime cubano s’impegna a
pagare 41 milioni di dollari, per di più in 15 anni, a non oltre 3.000 persone,
e per l’80% in natura (sotto specie di ferri vecchi, dolciumi, marmo, tonno in
conserva, succhi di frutta tropicale e articoli sanitari). “Toda una tomadura de pelo”, commenterà
sarcastico Alejandro Muñoz Alonso, “columnist”
del quotidiano spagnolo “ABC”[33].
Novembre 1987: Vengono malmenati
dalla polizia cubana e rispediti a casa i senatori Loyola de Palacio e Javier
Cámara, giunti all’Avana con una delegazione della Coalición Europea pro-Derechos Humanos en Cuba.
Gennaio 1988: Il presidente del
Senato spagnolo, José Federico de Carvajal fa omaggio a Fidel Castro di una
medaglia d’oro e lo scrittore esiliato Guillermo Cabrera Infante osserva: “Llevarle a Castro una medalla de oro por
parte de los socialistas es equivalente a remitirle a Herodes una tarjeta de la
UNICEF en nombre de todos lo niños del mundo”[34].
Febbraio 1988: Un rapporto
riservato del Ministero degli Esteri spagnolo, a firma Mercedes Rico, documenta
che “... en Cuba hay denegación de la
mayor parte de los derechos civiles y políticos, un sistema jurídico sin
garantías... y ausencia total de libertad de expresión, reunión u asociación...”. Inoltre, “...las autorizaciones para
salir del país se dan con cuentagotas y hay problemas muy graves de
reunificación familiar...”.Si precisa nel frattempo l’entità dei
crediti spagnoli a Cuba. Ammontano a 320 milioni di dollari[35].
Settembre 1988: Utilizzando i
cosiddetti “Fondos de Ayuda al Desarollo”,
dal 1981 al 1991 la Spagna ha investito a Cuba 7.000 milioni di pesetas
(all’incirca, 8 miliardi e mezzo delle odierne lire).
Gennaio 1989: Scrivendo ad ABC il
Direttore Generale della “Oficina de
Información Diplomática” del Ministero degli Esteri spagnolo, Juan Leña,
conferma che, malgrado le tensioni, si manterranno le “buenas relaciones” tra Spagna e Cuba[36].
Febbraio 1989: A Caracas, Felipe
González dichiara che nell’isola c’è stato “un
fracaso de sistema y punto”[37].
Marzo 1989: La Spagna, a
Ginevra, vota contro ulteriori verifiche ONU circa il rispetto dei diritti
umani a Cuba (una missione delle Nazioni Unite aveva visitato l’isola nel
settembre 1988).
Aprile 1990: Trovandosi a Rio per
l’insediamento di Collor de Mello, González chiede a Castro di democratizzare
Cuba. Il dittatore risponde da Sao Paulo che a Cuba la democrazia c’è già e
chiede polemicamente chi abbia eletto (sic!) il Re di Spagna, per poi
aggiungere: “...que les entreguen las
armas. A los vascos...a los gallegos...a los catalanes...y a
todo el que quiera autonomía!”[38].Viene
reso noto che dal 1982 al 1990 la Spagna ha versato a Cuba, tra aiuti FAD,
crediti c.d. “blandos” e donazioni,
un totale di 110.800 milioni di pesetas (equivalenti, più o meno a 115 miliardi
di lire attuali). La Spagna è il 5ø partner commerciale di Cuba (0,09% sul
totale del già modesto import-export con l’America Latina). L’Antilla Maggiore
è passata dal 1° al 2° posto tra i destinatari centro e sudamericani di merci
spagnole[39].
Maggio 1990: Il governo di Madrid
denuncia che Castro ritarda l’applicazione del “Trattato sugli Indennizzi” che, a ulteriore vantaggio della parte
cubana, non prevede in questo caso il pagamento di interessi[40].
Luglio 1990: Ancora una volta
l’autocrate cubano critica le manifestazioni del V Centenario, definito “panegírico del exterminio y la esclavización
de indios y negros”.A metà del mese, quattro poliziotti sequestrano un
cittadino cubano all’interno dell’Ambasciata spagnola all’Avana. Il Ministro
degli Esteri, Francisco Fernández Ordóñez, protesta. Con una nota durissima, e
del tutto inusuale, il collega cubano replica chiamandolo “angustiado administrador colonial”, “ignorante confieso”, “escandalosamente
inculto”, “paternalista” e “cínico”. Il governo González, stavolta,
non può fare a meno di richiamare l’ambasciatore, Antonio López de Haro. Ma la
Spagna non chiede né la restituzione della vittima del sequestro, avvenuto con
modalità analoghe a quelle utilizzate nell’81 nei locali della legazione
equadoriana e nell’83 entro il recinto della Nunziatura apostolica, né la
punizione dei colpevoli. I giornali parlano di “estupor ante la inconcebible tibieza de la reacción oficial española”[41]
e il Presidente del Parlamento Europeo, Enrique Barón Crespo censura il
turpiloquio della diplomazia castrista (“despropósitos
lanzados por el gobierno cubano”)[42].
Agosto 1990: Dagmar Moradillo,
prima ballerina del “Ballet Nacional”
cubano, si eclissa durante una tourn‚e in Spagna, e chiede asilo politico. Il
suo compagno, Alfredo Rodriguez, la segue, ma viene poi rapito nella Gran Vía
di Madrid e imbarcato su un aereo per Cuba. Riesce a fuggire definitivamente
approfittando dello scalo in Canada[43].
Settembre 1990: Fidel Castro propone
di normalizzare i rapporti con la Spagna “con
honor y respeto”, ma tre mesi più tardi, in occasione dei Campionati
Mondiali di Pelota Basca, che hanno luogo all’Avana, consente alla delegazione
di Euzkadi di sfilare con la propria bandiera separatamente da quella spagnola.
Madrid nomina il nuovo Ambasciatore a Cuba. È l’asturiano Gumersindo Rico
Rodriguez.
Aprile 1991: Inocencio Arias,
alto funzionario del Ministero spagnolo degli Affari Esteri, riceve una
delegazione di esponenti in esilio della “Plataforma
Democrática Cubana” per favorire, come viene spiegato, “una salida sensata hacia la democracia en
Cuba”. Per parte sua, Fernández Ordoñez scarta una visita dei Reali a Cuba
“mientras la situación no se normalice”[44].
La Xunta di Galizia promuove le Jornadas Gallegas dell’Avana.
Luglio 1991: Al vertice di
Guadalajara, rientrato ormai l’incidente dell’Ambasciata di un anno prima,
Felipe González ancora una volta esorta Castro a porre in atto riforme
democratiche. Il Comandante risponde picche, e coglie l’occasione per invitare
a Cuba il Re di Spagna il quale, smentendo il proprio Ministro degli Esteri,
accetta e gli stringe la mano (Jean François Revel definirà il gesto “una aberración moral”)[45].
Agosto 1991: Mentre Manuel Fraga
Iribarne si prepara a visitare le poche migliaia di “gallegos” ultrasettantenni che ancora vivono a Cuba, il dittatore,
inaugurando i Giochi Panamericani, proclama che dopo le Olimpiadi del ’92 “los catalanes van a levantar la bandera de
la independencia”[46].
La risposta di González, nell’ormai interminabile guerra delle parole, non si
fa attendere. Il giorno che
fallisce il golpe moscovita, commenta: “Hoy
es un día aciago para los dictadores que quedan”[47].
Settembre 1991: Una delegazione della Conferenza Episcopale spagnola
visita Cuba e il Cardinale Angel Suquía dichiara senza mezzi termini che “La situación que viven los catolicos cubanos
bajo el régimen ateo de Fidel Castro es comparable a la de los cristianos de la
antigua Roma en las catacumbas”[48].
Persiste l’attivismo
della Giunta di Galizia, che decide di finanziare corsi di “terapia ocupacional” per gli anziani
della “Asociación de Naturales de
Ortigueira” dell’Avana. Curiosamente, ma non troppo, fra i materiali forniti
vi sono anche chiodi, introvabili nell’isola.
Manuel Fraga visita
Cuba e fra pellegrinaggi, convivi e nostalgie esplora invano, con gli
interlocutori, le vie possibili di una transizione alla piena democrazia. In particolare esorta proprio Castro a “abrirse al futuro con propósito de enmienda,
espíritu de reconciliación y voluntad de reforma”[49].
[1] “ABC”, Madrid, 18 luglio 1990.
[2] H. THOMAS, Storia di Cuba, Einaudi, Torino, 1973, p. 81.
[3] Si veda H. PORTELL VILA, Historia de Cuba, Mnemosyne Publishing Inc., Miami, Florida, 1969, cit. in C.A. MONTANER, Cuba, claves para una conciencia en crisis, ed. Playor, Madrid, 1983, pp. 63 ss.
[4] H. THOMAS, cit., pp. 298 ss.
[5] Ivi, pp. 305-306.
[6] Cfr. C. NARANJO OROVIO, Cuba vista por el emigrante español, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Centro de Estudios Históricos, Dep.to de Historia de América, Madrid, 1987, p. 62.
[7] R. FERNANDEZ de la REGUERA-S. MARCH, Héroes de Cuba (Episodios Nacionales Contemporáneos), ed. Planeta, Barcelona 10a ed., 1981, p. 193.
[8] Ivi, p. 299.
[9] D. SALAS, La guerra de Cuba-1898, ed. Aldaba Militaria, Madrid, 1989, pp. 26-28.
[10] Ibidem.
[11] Ivi, p. 14.
[12] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 37.
[13] Ivi, p. 20.
[14] Ivi, p. 36.
[15] Ivi, p. 21.
[16] Ivi, p. 25.
[17] H. THOMAS, cit., pp. 354 ss.
[18] Vida, aventuras y desastres de un hombre llamado Castro, ed. Planeta, Barcelona, 1988, p. 409.
[19] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 40.
[20] H. THOMAS, cit., pp. 325 ss.
[21] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 70.
[22] Ivi, pp. 42-43.
[23] Nel 1929, anno culmine degli investimenti nordamericani, questi ammontarono a 1525 milioni di dollari, cifra straordinaria per l’epoca. Trent’anni dopo non raggiungevano i 900 milioni di dollari, rappresentando questa cifra il 14% degli investimenti stranieri. Sul punto, cfr. A. LEVI MARRERO, Geografia de Cuba, ed. Playor, Madrid, 2a ed., 1983, pp. 245 ss. Il testo è pubblicato in italiano nel Dossier Cuba ’90, a.c. del “Comitato Italano per i Diritti Umani a Cuba”, Roma, 1991, pp. 47-53.
[24] Stando a H. THOMAS (Storia, cit. pp. 550 ss.), fra il 1939 e il 1947 erano aumentati del 90% il reddito e del 500% il circolante (a fronte di un’inflazione del 145%).
[25] V. supra, Nota 23.
[26] La cifra è comprensiva delle proprietà immobiliari urbane. Non calcolandole, i valori espropriati ammontano a 250 milioni, secondo la stima di A. RECARTE, Cuba, economía y poder, 1959-1980, ed. Alianza, Madrid, 1980, p. 171.
[27] “ABC”, Madrid, 5 ottobre 1987.
[28] Per il dato più recente, cfr. “Calendario Atlante De Agostini”, Novara, 1989, p. 553.
[29] A. RECARTE,Cuba economia y poder, cit., p. 187.
[30] Ibidem.
[31] J. PARDO LLADA, Fidel y el Che, Plaza y Janés, Barcellona, 1988. Narra l’autore, protagonista e testimone della lotta anti-batistiana e di molti eventi successivi, che Castro, tenendolo per amico intimo, in vista della rischiosa spedizione a Santo Domingo per uccidere Trujillo (1947), gli fece dono, a mo’ di testamento, dei “libros que más estimaba de su biblioteca: las obras completas, 12 tomos, de ‘Escritos y Discursos de Benito Mussolini’ editados por Sopena en España” (p. 30). Sei anni più tardi, in vista dell’assalto al “Moncada”, il futuro dittatore s’istruirà, racconta sempre PARDO LLADA, sul Manual de Escuadras de la Falange di José Antonio (p. 65). Merita aggiungere che negli anni in cui Fidel Castro studiò presso il collegio “Belén” dell’Avana, fu discepolo fedele del gesuita Alberto de Castro, le cui lezioni traboccavano di retorica falangista, ispirandosi all’idea di un conflitto epocale fra spiritualità ispanica e materialismo anglosassone, tutt’altro che nuova, a dire il vero, nel contesto del pensiero ispanoamericano (v. C.A. MONTANER, Castro en la era de Gorbachov, Instituto de Cuestiones Internacionales, Madrid, 1990, p. 15).
[32] Cfr. Havana connection, in “Epoca”, Madrid, n. 42, 5 gennaio 1986.
[33] “ABC”, Madrid, 12 aprile 1990.
[34] “Epoca”, Madrid, nø 844, 1 febbraio 1988.
[35] Cfr. “ABC internecional”, Madrid, 29 febbraio 1988.
[36] “ABC internecional”, 3 gennaio 1989.
[37] Id., 14 febbraio 1989.
[38] “ABC”, 22 aprile 1990. L’identificazione dei terroristi baschi con un movimento patriottico in lotta per rivendicare diritti legittimi (a prescindere dai mezzi usati) è motivo ricorrente nella fraseologia e propaganda castrista (v. da ultimo G. MINÀ, Fidel, Sperling & Kupfer, Milano, 1991, p. 145).
[39] V. “Informe Latino Americano”, Londra, 9 maggio 1991.
[40] M.J. ALVAREZ, ‘Dentro de un año podrían ser indemnizados los españoles’, in “ABC internacional”, 8 maggio 1990.
[41] “ABC”, 23 luglio 1990.
[42] Id., 9 agosto 1990.
[43] Ampi servizi sull’argomento furono pubblicati dal quotidiano “ABC” (Madrid, 7-10 agosto 1990).
[44] “El país internacional", 22 aprile 1991.
[45] “Diario 16”, Madrid, 11 ottobre 1991.
[46] “ABC internecional”, 12 agosto 1991.
[47] Id., 10 settembre 1991.
[48] Id., 17 settembre 1991.
[49] Cfr., ‘Un viaje a Cuba’, in “ABC internacional”, 15 ottobre 1991. Hanno estesamente trattato del viaggio di Fraga anche “El país” (ed. internazionale) del 30 settembre 1991 e le riviste madrilene “Tribuna” e “Cambio 16”, entrambe del 7 ottobre scorso.