"METODO", N. 20/2004

Daniele Capanelli
(Ricercatore di diritto romano e storia del diritto
presso il Dipartimento di diritto privato
U. Natoli dell’Università di Pisa)

MADRID-L’AVANA: LUOGHI COMUNI, CONTRADDIZIONI, REALTÀ:
QUALCHE CONSIDERAZIONE SU UN RAPPORTO DIFFICILE

(Prima parte) 

Un riesame non affrettato e superficiale della complessa relazione ispano-cubana, così come si è venuta dipanando negli ultimi due secoli, potrebbe forse portare a qualche conclusione sorprendente, nel senso di sfatare, almeno in parte, uno dei luoghi comuni più duri a morire circa le pretese, costanti, reciprocamente rispettose “relazioni speciali” tra Madrid e L’Avana, le quali addirittura, secondo una valutazione del Partido Popular spagnolo, eccederebbero di gran lunga quelle che median entre dos gobiernos e, incluso,... son usuales entre dos estados[1]. Non che qui si voglia sottostimare legami ovvii, ma solo collocarli, o sforzarsi di farlo, nella giusta dimensione.

Va osservato, anzitutto, che la questione del rapporto Spagna-Cuba non può esaurirsi, a ben vedere, nell’analisi di una relazione semplicemente bilaterale, giacché‚ la collocazione geografica dell’Antilla Maggiore e il rilievo dell’unica risorsa cospicua di cui dispone, hanno suscitato nel tempo gli appetiti e, diciamo, un eccesso di attenzioni da parte del colosso nordamericano, la cui importante presenza nella storia anche culturale di Cuba naturalmente non è lecito revocare in dubbio. Occorre piuttosto indirizzarsi, dunque, verso lo studio di un rapporto prevalentemente triangolare (Washington-L’Avana-Madrid) dato il peso obiettivo delle leggi geo-politiche, altrettanto ineludibili di quelle della “gravitazione fisica” come rimarcò John Quincy Adams a suo tempo[2]. Occorre peraltro aggiungere, ed è bene chiarire, che se per certi versi la partecipazione statunitense alla vicenda dell’isola ha da essere deplorata, per altri non fu certo accolta negativamente, sulla metà del secolo scorso, da settori patriottici anche dell’esilio. Sarà opportuno ricordare che un Partido Anexionista, tra i cui esponenti brilla il maestro di Martí, Rafael María Mendive, e al quale fa da pendant la Cuban League of the United States, è ben presente nella lotta anti-coloniale, e che fin dal 1848 viene pubblicato a New York un periodico (“La Verdad”) che propugna, appunto, l’unione agli States. La prima lobby statunitense di un certo rilievo fu quella Orden de la Estrella Solitaria cubana che nel 1852 appoggiò la candidatura di Franklyn Pierce alla Casa Bianca. Risulta poi che, preparando gli sbarchi del 1850 e 1851, destinati, nei propositi, a innescare l’insurrezione anti-spagnola, Narciso Lopez e il colonnello William Crittendeen, che finirà fucilato a Pinar del Rio, reclutano in Louisiana e Kentucky centinaia di veterani della guerra messicana, per affiancarli, in quelle sfortunate spedizioni, ai combattenti indipendentisti. Nel 1848 viene disegnata la bandiera cubana, rimasta inalterata da allora. Basterebbe darle un’occhiata per rendersi conto che quel “rubín”, le “cinco franjas” e la “estrella” ricordano fin troppo il vessillo dell’Unione. Il Partito Annessionista perde slancio con gli anni, ma la sua presa rimane comunque considerevole fino a tutta la “Guerra de los Diez Años” (1868-1878), se è vero che nel 1869 gli insorti, guidati da Carlos Manuel de Céspedes chiedono al Presidente Grant di riconoscerli e i guerriglieri di Camagüey portano, significativamente, una coccarda che raffigura i colori di Cuba e degli Stati Uniti[3].

I primi anni del ’900 recano in sorte alla nuova Cuba l’umiliazione dell’Emendamento Platt, inserito nella Costituzione e poi soppresso di comune accordo nel 1934, nonché l’imposizione dell’affitto perpetuo agli USA della base di Guantánamo (1903); tuttavia, qualsiasi studioso del periodo pur minimamente imparziale non potrebbe non riconoscere che negli anni di occupazione militare americana (1899-1902; 1909-1912) i proconsoli Wood e Magoon non si limitarono all’ordinaria amministrazione, ma cercarono di gettare le basi per un futuro meno inquieto del passato. Allora venne debellata la febbre gialla (col decisivo apporto di Carlos Finlay), la riforma scolastica divenne operante, furono create le prime infrastrutture e si cercò, con candore tutto yankee, almeno di avviare il superamento del consolidato “machismo” e la promozione della donna. La provincia dell’Avana venne provvista di ferrovie, fu dettata la legge sulla proporzionale; infine, con la creazione della Guardia Rural, che peraltro non comprendeva molti combattenti mambises, si formò il primo nucleo del futuro esercito cubano[4]. Gli occupanti cercarono in definitiva di fare del proprio meglio applicando le istruzioni del Presidente Mc Kinley che, in riferimento ai cubani, ebbe a scrivere, con indubbio paternalismo ma altrettanta sincerità: “...poneteli in condizione di agire da soli, nel modo migliore che potrete. Noi desideriamo fare per loro tutto quello che è nelle nostre possibilità ed andarcene dall’isola, senza incidenti, il più presto possibile[5].

Al dinamismo dell’iniziativa gringa, tra l’altro concretatosi in diverse offerte di acquisto dell’isola (si ricorderà in particolare quelle dei presidenti Polk e Buchanan e il Manifesto di Ostenda, del 1852), venne contrapponendosi, fino al memorabile rovescio del ’98, una gestione spagnola del territorio d’oltremare altrettanto rapace quanto inerte e autoritaria. Madrid respinse più volte con sdegno le avances degli Stati Uniti, ma nulla o quasi fece mai per legittimarsi politicamente agli occhi della popolazione indigena, costituita per il 45% da neri e mulatti. Tutto ciò che si voleva era promuovere i commerci e proteggere le piccole imprese artigianali che gli immigrati via via moltiplicarono ma, soprattutto, spremere le piantagioni, governandole con pugno di ferro. Per questo, fu soffocata nel sangue, tra le altre, la rivolta servile del 1844, che capeggiò a Matanzas “Plácido” ovvero Gabriel de la Concepción Valdés. Beninteso, il disegno dei governanti fu in qualche modo insidiato da ostacoli obiettivi, per esempio l’agguerrita concorrenza nordamericana (nel 1850 la Confederazione già controllava 1/3 degli scambi con Cuba) ma ciò non stimolò ad abbandonare la torpida gestione dell’esistente, anzi, continuò a prevalere, nei politici e negli atteggiamenti della corona una miopia pari all’assurda tenacia con cui a lungo si negò a gran parte dei sudditi più partecipazione e più autonomia. In proposito, non è forse di dominio comune un dato illuminante. Mentre dal 1809 al 1878 si alternano al governo di Cuba, in un quadro di accentuata instabilità, una decina di Capitanes Generales, in maggioranza schiavisti e conservatori, dal 1825 Madrid governa Cuba con la Legge Marziale e ammette solo il c.d. Partido Incondicional Español (nome che è tutto un programma) cui dà voce l’antico “Diario de la Marina”, parto fortunato di un gallego illustre, Isidro Araujo de Lire[6].

Solo dopo la “Guerra Chica” (1878-1879) le autorità spagnole consentiranno un relativo pluralismo, all’interno del quale troverà spazio il Partido Liberal, indipendentista. Il governo metropolitano assegnerà allora a Cuba 40 deputati, ripartendo l’isola in 6 province, in un soprassalto di peraltro tardiva resipiscenza. La successiva crisi del latifondo zuccheriero, proprio mentre in Europa prende piede la coltura della barbabietola, porterà nel 1888 all’abolizione della schiavitù. Anche questo, tuttavia, non impedirà che in un clima radicalizzato si arrivi rapidamente alla resa dei conti. I patrioti di Maceo, Gómez e Martí insorgono nel 1895 e tre anni più tardi gli Stati Uniti, in piena isteria bellicista, chiuderanno la partita, sbaragliando dopo qualche settimana l’esercito coloniale spagnolo e l’incauta flotta nemica.

Anche la Terza Guerra d’Indipendenza cubana, sulla quale credo valga la pena di soffermarsi brevemente, prova quale vuoto di iniziative serie e concludenti propositi nascondessero in realtà le declamazioni enfatiche sulla “siempre fiel isla de Cuba” e sulla volontà “inquebrantable” degli spagnoli di “defender la integridad de la Patria” (fatta eccezione, naturalmente, per l’interregno dello spietato ma almeno capace gen. Valeriano Weyler y Nicolau, non per nulla di ascendenza prussiana). Di fatto, i coloniali sono sulla difensiva già prima dell’intervento esterno, e, oltretutto, su 60.000 morti e feriti, di un totale di 200.000 effettivi, solo 2.400 cadono vittime della pungente ma non irresistibile guerriglia mambisa[7]. Tutti gli altri li abbatte la febbre gialla che imperversa anche per la disorganizzazione e l’inettitudine dei comandi. D’altra parte, l’Ammiraglio Cervera e la sua squadra, fragile e raccogliticcia, vengono mandati allo sbaraglio con assoluta irresponsabilità dal Ministro della Marina Bermejo al quale, poco prima di lasciare Cadice lo stesso Cervera, che non si fa illusioni, scrive: “Creo entrever... que se persiste en la idea de que la escuadra vaya a Cuba y me parece una aventura que puede costarnos muy cara[8]. Il che puntualmente si verificherà nell’impari scontro in acque santiaghine del 3 luglio 1898[9].

Naturalmente non mancano gesta valorose dei combattenti spagnoli, sia regolari che della Guardia Civil. Basterebbe rammentare, per tutte, la strenua difesa della collina di San Juan, in Oriente, da parte delle truppe del generale Linares, contro la preponderante forza d’urto yankee[10]. Ancor più per questo, si fatica a intendere perché la Spagna abbia gettato via prima politicamente, poi militarmente, quanto meno la possibilità di difendere Cuba in modo più dignitoso, anziché rassegnarsi ad una disfatta ancor più cocente perché subita ad opera di un grande paese di quell’area anglosassone con la quale, nella prospettiva storica, non è mai corso buon sangue.

Tutto ciò dopo che, diversamente da quanto accaduto nel 1819 con la Florida, più volte rifiuta, come visto, Madrid di cedere l’isola per cifre non proprio irrilevanti. Ne attenua le perplessità, anzi le aumenta, la constatazione che un anno dopo l’inizio della guerra il rapporto numerico tra coloniali e ribelli è di 4 a 1 (125.000 regolari più 60.000 volontari contro 45.000 cubani), costituendo questo un vantaggio inestimabile del quale il gen. Martínez Campos, predecessore di Weyler, come pure i successori, non sanno fare buon uso[11].

L’evidente sfasatura tra proclami solenni e fatti, se non autorizza a sopravvalutare quanto accomuna, materialmente e spiritualmente, la Spagna a Cuba, neppure può far concludere, d’altro canto, che, sotto certi, profili la “relación especial” di cui si è detto abbia funzionato, non foss’altro per essere stata Cuba l’ultimo territorio ispano-americano a rendersi indipendente, assieme a Puerto Rico, che però ebbe da subito un destino diverso.

Così, se la Spagna rinunciando a Cuba perse anche l’onore, i laboriosi spagnoli dell’isola, migliori dei loro governanti, seppero conservare proprietà e commerci, avendoli in parte riconvertiti. È impressionante in effetti la lista di terre, immobili, esercizi ancora gestiti da spagnoli dopo l’indipendenza. Sono migliaia di piccole imprese, edifici urbani, ettari (o meglio, “vegas”) di terre produttive. Quanto al costume, le abitudini e le tradizioni metropolitane continuarono a impregnare di sé, dopo la guerra, i molti aspetti della vita quotidiana[12]. L’assenza di risentimenti della popolazione locale, malgrado certe inevitabili asprezze del conflitto appena terminato, permise, d’altra parte, un forte incremento del flusso migratorio spagnolo a Cuba fra l’inizio del secolo e il 1920. La prosperità dell’Antilla, che vendeva zucchero, praticamente in regime di monopolio, ad un’Europa afflitta da mille problemi e, ben presto, da una guerra devastante, fece sì che Cuba attirasse soprattutto contadini affamati di terra e lavoro e giovani desiderosi di sottrarsi ai contraccolpi del conflitto sociale o ad una fine certa nelle guerre africane (“Aquello era un matadero de españoles”)[13]. La gran parte del 48% di emigrati che approdarono a Cuba veniva da Asturie e Galizia, regioni dove la parcellizazione agricola era tanto capillare da non permettere la sopravvivenza a famiglie tradizionalmente numerose (“Eramos muchos hermanos y había que emigrar porque no podíamos subsistir”). Il “minifundio” gallego, formatosi anche in conseguenza di quella legge delle Cortes di Cadice che nel 1812 abolì la “vinculación” (cioè il regime per il quale il padre, patriarca rurale, trasferiva all’erede maschio primogenito l’intero patrimonio) riguardò, all’inizio del ’900, i 2/3 della proprietà agricola, allo stesso modo che nelle Asturie, dove l’alternativa al lavoro nei campi, quando questo vi fosse, era il penoso impiego in miniera (“La causa de marcharme a Cuba fue el no querer trabajar en las minas”)[14]. L’emigrazione oltre Atlantico di interi nuclei familiari e parentali dette luogo ad una piccola, tipica epopea, che coinvolse oltre 100.000 persone, delle quali 98.000 giunte a Cuba nel solo 1920. Vi recitò un ruolo decisivo anzitutto quello tra i fratelli che, allontanatosi per primo dalla Spagna, chiamava in seguito presso di sé i nipoti e, via via, buona parte del clan familiare (“tenía un tío en La Habana” è una delle frasi più ricorrenti nelle narrazioni degli emigrati)[15]. In secondo luogo, il c.d. indiano ovvero agente migratorio di ritorno e, a un livello più basso, i reclutatori, variamente definiti (“ganchos”, “arregladores”, “garroteros”).Lo zelo degli emigrati che, specie nel caso dei bodegueros, spesso travalicò in brutale stakanovismo (sicché il termine passerà ad indicare per antonomasia lo spagnolo che punta a far soldi e non concede respiro né a sé‚ né ai dipendenti) arricchì la comunità ispano-cubana quanto bastò per finanziare “Centros” e “Sociedades” in grado di fornire gratuitamente i servizi più necessari. Ognuna di tali entità richiamava la “aldea” (villaggio), il “municipio” o la “comarca” (territorio comprensivo di più municipi) di origine degli affiliati, quasi a ribadire simbolicamente un rapporto con la piccola patria di ciascuno che viveva anche oltre l’Oceano. Basti qui citare alcuni nomi di Sociedades galiziane: Ferrol y su comarca, Hijos del Ayuntamiento de Radeiro, Rivera del Tambre y Valle de la Malía, Unión Barcalesa ecc... Dei centri e Società si fecero portavoce organi di stampa quasi esclusivamente finanziati da gallegos, non sempre destinati al solo pubblico dell’emigrazione (“Vida Gallega”, “Avisador Galaico”, “Aires de Miña Terra”, “Santos y Meigas”, ma anche “Diario de la Marina”, già ricordato, che ben presto ebbe diffusione nazionale). Queste attività intense e feconde, cui dettero il loro apporto baschi, canarî e andalusi, l’abbondanza di circolante nell’isola e il cospicuo ammontare delle rimesse, indussero la gente semplice rimasta al di qua del “charco” a idealizzare Cuba, come prova la frase che segue, apparsa in uno studio di qualche tempo fa: “La vida en Cuba era fácil; todo el mundo podía prosperar ...En aquel tiempo, los barcos venían llenos para Cuba..., los españoles cubanos... que llevaban ya años en Cuba, iban a pasear a España y llevaban cadenas de oro...y gastaban mucho dinero, y la gente dice... ahí viene el americano... (y)... todo el mundo quería venir para acá[16]. Cuba, insomma, era il luogo d’approdo che avrebbe potuto cambiare la vita di molti, il paese della “Danza de los Millones”, come si diceva, i cui primi presidenti, Manuel Estrada Palma, José Miguel Gómez e Mario García Menocal s’ingegnarono a favorire in ogni modo l’immigrazione e il giusto trattamento dei lavoratori, mediante leggi che videro la luce tra il 1902 e il 1909 (Ley y Reglamento de Inmigración, Ley de Inmigración y Colonización, Ley Arteaga).Tenuto conto di tale realtà, può immaginarsi quali conseguenze catastrofiche ebbe, anche sul piano psicologico, prima la fine della guerra europea, quindi la fatale Crisi del ’29. A dire il vero, se queste furono le cause principali di una caduta prevedibile, non furono le sole. Il periodo delle vacche grasse aveva portato all’accumulo di risorse mal gestite, o dilapidate per imperversare di una corruzione sfrenata, che risaliva ai tempi della colonia. Espressioni come “Si vives como Vives vivirás” (il Capitán General Dionisio Vives, Governatore di Cuba nella prima metà del XIX secolo, si segnalò, in effetti, per la finanza allegra) o “chivar con saña” (che equivale a “corruzione sfrenata”, laddove il “chivo” è il guadagno illecito) o definizioni come “Presidente de la buena vida”, coniata per José Miguel Gómez[17] possono dare l’idea di un fenomeno altrettanto reiterato e inevitabile quanto i cicloni tropicali e al quale perciò il cubano finisce per guardare anche con ironica rassegnazione (Carlos Franqui lo ha sottolineato, osservando come alle vote quest’atteggiamento si riveli in definitiva una preziosa valvola di sfogo)[18].

La Grande crisi, definita “mortal” da un emigrante dell’epoca[19], provocò un crollo del tenore di vita (-20% dal 1925 al 1933) e colpì duramente gli interessi ispano-cubani. L’entità del danno la si può meglio intendere considerando che allora gli immigrati controllavano l’80% degli esercizi commerciali e alberghieri e il 35% degli zuccherifici[20], formando 1/4 della popolazione complessiva.

Gli effetti di tanta caduta non si fecero attendere. Per un verso, il flusso migratorio calò dal 48,46% del 1920 al 10% appena del periodo 1928-1933. D’altra parte, una deplorevole reazione xenofoba prese corpo sotto la dittatura di Gerardo Machado. Venne lanciata la parola d’ordine “Hay que cubanizar a Cuba” altrettanto facilmente demagogica quanto singolare in un paese nel quale il 40% degli immigrati aveva dato vita a matrimoni misti (stando a un classico detto popolare “la mulata fue el mejor invento de los españoles”)[21]. Nel novembre del 1933 il Dr. Ramón Grau San Martín, presidente per 4 mesi appena, trovò il tempo di varare quella famigerata “Ley de Nacionalización del Trabajo” (più comunemente detta “del 50%”), con la quale la metà dei posti di lavoro venivano riservati a cubani e, addirittura, la totalità delle professioni[22]. In quegli anni, molti ispano-cubani dovettero lasciare l’isola, percorrendo a ritroso il cammino della speranza. Ecco un altro esempio, generalmente trascurato, di quanto valgano i “legami fraterni” tra Cuba e la Madre Patria, quando a qualcuno torna comodo dimenticarli! Fanno seguito a questi eventi anni tormentati e convulsi. È l’epoca delle presidenze che durano, talora, il breve volgere di qualche settimana (tanto per fare un esempio, dall’agosto del ’33, caduta di Machado, al dicembre 1936 si succedono 6 capi di stato, tutti più o meno sotto tutela militare), delle elezioni truccate (salvo, forse, quelle del 1939 e 1941), del “gatillo-alegre” e del terrorismo piccolo-borghese. Mentre i “pistoleros” dettano legge e nelle Università fa parte dell’ordinaria amministrazione interrompere le lezioni a colpi d’arma da fuoco; mentre l’impetuoso e stravagante Eduardo Chibás predica invano dai microfoni della radio contro la società corrotta (poi, disperato, si suiciderà clamorosamente il 5 agosto del 1951). Mentre, infine, gli USA in parte pilotano gli eventi, in parte li subiscono, la comunità ispano-cubana residua rimane ai margini delle contese civili, curando i commerci e la produzione del 17% di zuccherifici ancora posseduti nel 1937 e, sul piano politico, limitandosi a promuovere tre partitini di corto respiro (Acción Gallega, Partido Regionalista, Partido Laborista). Gran parte dell’economia cubana è ora in mano agli Stati Uniti[23], con i quali un astuto militare di seconda fila, il “mulato lindo” Fulgencio Batista Zaldívar, eletto presidente nel 1941 e confermatosi più tardi ricorrendo al c.d. “golpe de la sunsundamba” (marzo 1952) e alle elezioni dell’anno seguente, sviluppa un’intensa collaborazione, peraltro già collaudata durante la seconda guerra mondiale.

Quest’ultima, amara ironia della storia, aveva propiziato un nuovo, impetuoso decollo economico, subito vanificato dagli sprechi e dalla solita corruzione che con la seconda presidenza Grau toccò estremi grotteschi[24].

La situazione non cambiò, negli aspetti essenziali, durante il “batistato”, al termine del quale comunque, contrariamente a quanto si crede, l’economia e la struttura sociale dell’isola erano tutt’altro che quelle tipiche di un paese sottosviluppato e marginale. Studi autorevoli, in particolare quelli di Leví Marrero, hanno confermato, sfatando un luogo comune, che il paese si trovava, allora, ai primi posti in America Latina per livelli di istruzione e spesa sanitaria, per infrastrutture e per certi indici di consumo. Produceva 2/3 del cibo necessario, mentre il capitale locale controllava il 60% del risparmio e gran parte degli oltre 2000 stabilimenti industriali. I salari delle categorie di punta erano elevati, e le 65.000 imprese commerciali avevano un giro di affari di 2500 milioni di dollari[25]. I discendenti degli immigrati spagnoli contribuirono la loro parte alla crescita, che pure non evitò diseguaglianze e problemi. Così, quando Castro, al culmine della rivoluzione democratica degli anni ’56-’59, cacciò Batista dal potere, subentrandogli al vertice dello stato, la ventata nazionalizzatrice fece sì che quella comunità fosse tra le più penalizzate dalle confische.

Le proprietà d’immobili, fabbriche e negozi, per un ammontare di 300 milioni di dollari[26] furono cancellate con un tratto di penna e gli immigrati lasciarono in massa Cuba per far ritorno in patria o stabilirsi nella Florida[27].

Da allora, per oltre un quarto di secolo le relazioni tra Madrid e l’Avana si sono evolute in modo altilenante. Nel corso degli Anni ’60, durante i quali fra errori, spropositi, fughe in avanti e parziali retromarce, Castro e i suoi cercarono di affermare un modello di società utopico e ultra-egualitario, l’attivo commerciale spagnolo venne diminuendo mano a mano che Cuba, ben presto in piena crisi, stringeva saldi rapporti col blocco sovietico.

Tra il 1965 e il 1975 le navi mercantili del vicino paese non viaggiarono all’Antilla, così come aveva fatto la Compagnia Iberia nel 1963. D’altra parte, se nel 1959 la Spagna era il 2° partner commerciale dell’isola, 20 anni dopo era scesa al 3° posto e nel 1989 al 5°, precedendola l’URSS, il Giappone, la RDT e la Cecoslovacchia[28]. L’import-export tra i due paesi non ha mai deviato dalle caratteristiche di fondo, nel senso che Madrid esporta alimenti (80%), più macchine e tecnologia, ricavando in cambio quasi solo tabacco (90%) e zucchero[29]. Alcune intese hanno regolato questi movimenti: il “Modus Vivendi Comercial y de Pagos” del 23 agosto 1959, che riprese il “Tratado Comercial y de Pagos” del 1953 e venne prorogato fino al 1972, quando un nuovo Accordo, di durata triennale, fissò i termini dell’interscambio, fino all’ulteriore rinnovo del 1976[30].

L’insieme di questi dati credo confermi, una vota di più, che la “relación especial” ha i suoi limiti. Non bastò infatti la nota simpatia di Franco per i cubani, forse più che per Castro personalmente (e comunque i due uscivano, per dir così, dal medesimo brodo di coltura, essendo nota la simpatia fervente del giovane Fidel verso Mussolini e il falangismo)[31] per ravvivare un rapporto fattosi problematico a seguito dei torti patiti dai laboriosi “gallegos” per mano del regime rivoluzionario. Oltretutto, la pauperizzazione dell’isola ha impedito che i commerci lievitassero, come certo sarebbe potuto accadere in un contesto del tutto diverso.

Non c’è gran che da aggiungere sui rapporti ispano-cubani, che riacquistano dinamismo solo da quando, nell’ottobre del 1982, i socialisti di Felipe González vanno al potere a Madrid. A partire da allora, peraltro contro ogni apparentemente ragionevole previsione, la convivenza, prima relativamente pacifica, lascia spazio ad una intermittente conflittualità che, va detto subito, alimentano soprattutto i cubani, talora con plateale disprezzo delle regole minime che dovrebbero governare un’armoniosa relazione tra stati. Da parte spagnola, alle punture di spillo dell’Avana si è quasi sempre risposto con una moderazione persino eccessiva, nonché iniettando pesetas a milioni nelle sempre più esauste casse cubane. Una rassegna degli episodi salienti aiuterà a meglio intendere quest’aspetto:

 

Gennaio 1984: Fidel Castro “consiglia” alla Spagna di non entrare nella NATO, lasciando capire che Cuba non resterebbe indifferente alla soluzione opposta.

 

Luglio 1985: Il dittatore cubano se la prende con il “Descubrimiento”, la cui celebrazione solenne impegnerà l’intero mondo ispanico nella ricorrenza del Quinto Centenario, tacciandolo per l’appunto di “fecha infausta y nefasta”.

 

Dicembre 1985: Funzionari dell’Ambasciata cubana, sempre troppo affollata e troppo intrigante, tentano di rapire, in pieno centro madrileno, l’esule Manuel Antonio Sánchez Pérez, ex-Vice Ministro del Commercio Estero. Il contro-spionaggio spagnolo sventa l’operazione. Ma i cubani non si danno per vinti e quattro mesi dopo spediscono a Sánchez Pérez (e al pubblicista Carlos Alberto Montaner) due pacchi-bomba che fortunatamente non esplodono[32].

 

Novembre 1986: González vola all’Avana per chiedere la liberazione del prigioniero politico di origine spagnola Eloy Gutiérrez Menoyo e “chiudere” il Trattato sugli indennizzi ai cubano-spagnoli espropriati nel ’59. Di passaggio, il Primo Ministro qualifica infelicemente Castro di “luchador por la libertad”.

 

Dicembre 1986: Il presidente del Senato spagnolo, Félix Pons, non invita l’omologo cubano, se così lo si può definire, alla Conferenza dei Presidenti dei Parlamenti ispano-americani, in programma a Madrid. Castro replica definendolo “tipejo fascistoide” e un comunicato della Asamblea Nacional del Poder Popular cubano ricorre ai termini di “insolente”, “prepotente” e “reaccionario”. Gli spagnoli consegnano la rituale nota di protesta all’Ambasciatore Oscar García Fernández. Subito dopo, viene firmato il “Trattato sugli Indennizzi” e Castro libera Eloy Gutiérrez Menoyo.

 

Ottobre 1987: Le Cortes spagnole approvano il Trattato di cui sopra. A fronte di un debito di 300 milioni di dollari, moltiplicatosi almeno per 5 in 30 anni, il regime cubano s’impegna a pagare 41 milioni di dollari, per di più in 15 anni, a non oltre 3.000 persone, e per l’80% in natura (sotto specie di ferri vecchi, dolciumi, marmo, tonno in conserva, succhi di frutta tropicale e articoli sanitari). “Toda una tomadura de pelo”, commenterà sarcastico Alejandro Muñoz Alonso, “columnist” del quotidiano spagnolo “ABC”[33].

 

Novembre 1987: Vengono malmenati dalla polizia cubana e rispediti a casa i senatori Loyola de Palacio e Javier Cámara, giunti all’Avana con una delegazione della Coalición Europea pro-Derechos Humanos en Cuba.

 

Gennaio 1988: Il presidente del Senato spagnolo, José Federico de Carvajal fa omaggio a Fidel Castro di una medaglia d’oro e lo scrittore esiliato Guillermo Cabrera Infante osserva: “Llevarle a Castro una medalla de oro por parte de los socialistas es equivalente a remitirle a Herodes una tarjeta de la UNICEF en nombre de todos lo niños del mundo[34].

 

Febbraio 1988: Un rapporto riservato del Ministero degli Esteri spagnolo, a firma Mercedes Rico, documenta che “... en Cuba hay denegación de la mayor parte de los derechos civiles y políticos, un sistema jurídico sin garantías... y ausencia total de libertad de expresión, reunión u asociación.... Inoltre, “...las autorizaciones para salir del país se dan con cuentagotas y hay problemas muy graves de reunificación familiar...”.Si precisa nel frattempo l’entità dei crediti spagnoli a Cuba. Ammontano a 320 milioni di dollari[35].

 

Settembre 1988: Utilizzando i cosiddetti “Fondos de Ayuda al Desarollo”, dal 1981 al 1991 la Spagna ha investito a Cuba 7.000 milioni di pesetas (all’incirca, 8 miliardi e mezzo delle odierne lire).

 

Gennaio 1989: Scrivendo ad ABC il Direttore Generale della “Oficina de Información Diplomática” del Ministero degli Esteri spagnolo, Juan Leña, conferma che, malgrado le tensioni, si manterranno le “buenas relaciones” tra Spagna e Cuba[36].

 

Febbraio 1989: A Caracas, Felipe González dichiara che nell’isola c’è stato “un fracaso de sistema y punto[37].

 

Marzo 1989: La Spagna, a Ginevra, vota contro ulteriori verifiche ONU circa il rispetto dei diritti umani a Cuba (una missione delle Nazioni Unite aveva visitato l’isola nel settembre 1988).

 

Aprile 1990: Trovandosi a Rio per l’insediamento di Collor de Mello, González chiede a Castro di democratizzare Cuba. Il dittatore risponde da Sao Paulo che a Cuba la democrazia c’è già e chiede polemicamente chi abbia eletto (sic!) il Re di Spagna, per poi aggiungere: “...que les entreguen las armas. A los vascos...a los gallegos...a los catalanes...y a todo el que quiera autonomía!”[38].Viene reso noto che dal 1982 al 1990 la Spagna ha versato a Cuba, tra aiuti FAD, crediti c.d. “blandos” e donazioni, un totale di 110.800 milioni di pesetas (equivalenti, più o meno a 115 miliardi di lire attuali). La Spagna è il 5ø partner commerciale di Cuba (0,09% sul totale del già modesto import-export con l’America Latina). L’Antilla Maggiore è passata dal 1° al 2° posto tra i destinatari centro e sudamericani di merci spagnole[39].

 

Maggio 1990: Il governo di Madrid denuncia che Castro ritarda l’applicazione del “Trattato sugli Indennizzi” che, a ulteriore vantaggio della parte cubana, non prevede in questo caso il pagamento di interessi[40].

 

Luglio 1990: Ancora una volta l’autocrate cubano critica le manifestazioni del V Centenario, definito “panegírico del exterminio y la esclavización de indios y negros”.A metà del mese, quattro poliziotti sequestrano un cittadino cubano all’interno dell’Ambasciata spagnola all’Avana. Il Ministro degli Esteri, Francisco Fernández Ordóñez, protesta. Con una nota durissima, e del tutto inusuale, il collega cubano replica chiamandolo “angustiado administrador colonial”, “ignorante confieso”, “escandalosamente inculto”, “paternalista” e “cínico”. Il governo González, stavolta, non può fare a meno di richiamare l’ambasciatore, Antonio López de Haro. Ma la Spagna non chiede né la restituzione della vittima del sequestro, avvenuto con modalità analoghe a quelle utilizzate nell’81 nei locali della legazione equadoriana e nell’83 entro il recinto della Nunziatura apostolica, né la punizione dei colpevoli. I giornali parlano di “estupor ante la inconcebible tibieza de la reacción oficial española[41] e il Presidente del Parlamento Europeo, Enrique Barón Crespo censura il turpiloquio della diplomazia castrista (“despropósitos lanzados por el gobierno cubano”)[42].

 

Agosto 1990: Dagmar Moradillo, prima ballerina del “Ballet Nacional” cubano, si eclissa durante una tourn‚e in Spagna, e chiede asilo politico. Il suo compagno, Alfredo Rodriguez, la segue, ma viene poi rapito nella Gran Vía di Madrid e imbarcato su un aereo per Cuba. Riesce a fuggire definitivamente approfittando dello scalo in Canada[43].

 

Settembre 1990: Fidel Castro propone di normalizzare i rapporti con la Spagna “con honor y respeto”, ma tre mesi più tardi, in occasione dei Campionati Mondiali di Pelota Basca, che hanno luogo all’Avana, consente alla delegazione di Euzkadi di sfilare con la propria bandiera separatamente da quella spagnola. Madrid nomina il nuovo Ambasciatore a Cuba. È l’asturiano Gumersindo Rico Rodriguez.

 

Aprile 1991: Inocencio Arias, alto funzionario del Ministero spagnolo degli Affari Esteri, riceve una delegazione di esponenti in esilio della “Plataforma Democrática Cubana” per favorire, come viene spiegato, “una salida sensata hacia la democracia en Cuba”. Per parte sua, Fernández Ordoñez scarta una visita dei Reali a Cuba “mientras la situación no se normalice[44]. La Xunta di Galizia promuove le Jornadas Gallegas dell’Avana.

 

Luglio 1991: Al vertice di Guadalajara, rientrato ormai l’incidente dell’Ambasciata di un anno prima, Felipe González ancora una volta esorta Castro a porre in atto riforme democratiche. Il Comandante risponde picche, e coglie l’occasione per invitare a Cuba il Re di Spagna il quale, smentendo il proprio Ministro degli Esteri, accetta e gli stringe la mano (Jean François Revel definirà il gesto “una aberración moral”)[45].

 

Agosto 1991: Mentre Manuel Fraga Iribarne si prepara a visitare le poche migliaia di “gallegos” ultrasettantenni che ancora vivono a Cuba, il dittatore, inaugurando i Giochi Panamericani, proclama che dopo le Olimpiadi del ’92 “los catalanes van a levantar la bandera de la independencia[46]. La risposta di González, nell’ormai interminabile guerra delle parole, non si fa attendere. Il giorno che fallisce il golpe moscovita, commenta: “Hoy es un día aciago para los dictadores que quedan[47].

 

Settembre 1991: Una delegazione della Conferenza Episcopale spagnola visita Cuba e il Cardinale Angel Suquía dichiara senza mezzi termini che “La situación que viven los catolicos cubanos bajo el régimen ateo de Fidel Castro es comparable a la de los cristianos de la antigua Roma en las catacumbas[48].

 

Persiste l’attivismo della Giunta di Galizia, che decide di finanziare corsi di “terapia ocupacional” per gli anziani della “Asociación de Naturales de Ortigueira” dell’Avana. Curiosamente, ma non troppo, fra i materiali forniti vi sono anche chiodi, introvabili nell’isola.

Manuel Fraga visita Cuba e fra pellegrinaggi, convivi e nostalgie esplora invano, con gli interlocutori, le vie possibili di una transizione alla piena democrazia. In particolare esorta proprio Castro a “abrirse al futuro con propósito de enmienda, espíritu de reconciliación y voluntad de reforma[49].



[1] “ABC”, Madrid, 18 luglio 1990.

[2] H. THOMAS, Storia di Cuba, Einaudi, Torino, 1973, p. 81.

[3] Si veda H. PORTELL VILA, Historia de Cuba, Mnemosyne Publishing Inc., Miami, Florida, 1969, cit. in C.A. MONTANER, Cuba, claves para una conciencia en crisis, ed. Playor, Madrid, 1983, pp. 63 ss.

[4] H. THOMAS, cit., pp. 298 ss.

[5] Ivi, pp. 305-306.

[6] Cfr. C. NARANJO OROVIO, Cuba vista por el emigrante español, Consejo Superior de Investigaciones Científicas, Centro de Estudios Históricos, Dep.to de Historia de América, Madrid, 1987, p. 62.

[7] R. FERNANDEZ de la REGUERA-S. MARCH, Héroes de Cuba (Episodios Nacionales Contemporáneos), ed. Planeta, Barcelona 10a ed., 1981, p. 193.

[8] Ivi, p. 299.

[9] D. SALAS, La guerra de Cuba-1898, ed. Aldaba Militaria, Madrid, 1989, pp. 26-28.

[10] Ibidem.

[11] Ivi, p. 14.

[12] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 37.

[13] Ivi, p. 20.

[14] Ivi, p. 36.

[15] Ivi, p. 21.

[16] Ivi, p. 25.

[17] H. THOMAS, cit., pp. 354 ss.

[18] Vida, aventuras y desastres de un hombre llamado Castro, ed. Planeta, Barcelona, 1988, p. 409.

[19] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 40.

[20] H. THOMAS, cit., pp. 325 ss.

[21] C. NARANJO OROVIO, cit., p. 70.

[22] Ivi, pp. 42-43.

[23] Nel 1929, anno culmine degli investimenti nordamericani, questi ammontarono a 1525 milioni di dollari, cifra straordinaria per l’epoca. Trent’anni dopo non raggiungevano i 900 milioni di dollari, rappresentando questa cifra il 14% degli investimenti stranieri. Sul punto, cfr. A. LEVI MARRERO, Geografia de Cuba, ed. Playor, Madrid, 2a ed., 1983, pp. 245 ss. Il testo è pubblicato in italiano nel Dossier Cuba ’90, a.c. del “Comitato Italano per i Diritti Umani a Cuba”, Roma, 1991, pp. 47-53.

[24] Stando a H. THOMAS (Storia, cit. pp. 550 ss.), fra il 1939 e il 1947 erano aumentati del 90% il reddito e del 500% il circolante (a fronte di un’inflazione del 145%).

[25] V. supra, Nota 23.

[26] La cifra è comprensiva delle proprietà immobiliari urbane. Non calcolandole, i valori espropriati ammontano a 250 milioni, secondo la stima di A. RECARTE, Cuba, economía y poder, 1959-1980, ed. Alianza, Madrid, 1980, p. 171.

[27] “ABC”, Madrid, 5 ottobre 1987.

[28] Per il dato più recente, cfr. “Calendario Atlante De Agostini”, Novara, 1989, p. 553.

[29] A. RECARTE,Cuba economia y poder, cit., p. 187.

[30] Ibidem.

[31] J. PARDO LLADA, Fidel y el Che, Plaza y Janés, Barcellona, 1988. Narra l’autore, protagonista e testimone della lotta anti-batistiana e di molti eventi successivi, che Castro, tenendolo per amico intimo, in vista della rischiosa spedizione a Santo Domingo per uccidere Trujillo (1947), gli fece dono, a mo’ di testamento, dei “libros que más estimaba de su biblioteca: las obras completas, 12 tomos, de ‘Escritos y Discursos de Benito Mussolini’ editados por Sopena en España” (p. 30). Sei anni più tardi, in vista dell’assalto al “Moncada”, il futuro dittatore s’istruirà, racconta sempre PARDO LLADA, sul Manual de Escuadras de la Falange di José Antonio (p. 65). Merita aggiungere che negli anni in cui Fidel Castro studiò presso il collegio “Belén” dell’Avana, fu discepolo fedele del gesuita Alberto de Castro, le cui lezioni traboccavano di retorica falangista, ispirandosi all’idea di un conflitto epocale fra spiritualità ispanica e materialismo anglosassone, tutt’altro che nuova, a dire il vero, nel contesto del pensiero ispanoamericano (v. C.A. MONTANER, Castro en la era de Gorbachov, Instituto de Cuestiones Internacionales, Madrid, 1990, p. 15).

[32] Cfr. Havana connection, in “Epoca”, Madrid, n. 42, 5 gennaio 1986.

[33] “ABC”, Madrid, 12 aprile 1990.

[34] “Epoca”, Madrid, nø 844, 1 febbraio 1988.

[35] Cfr. “ABC internecional”, Madrid, 29 febbraio 1988.

[36] “ABC internecional”, 3 gennaio 1989.

[37] Id., 14 febbraio 1989.

[38] ABC”, 22 aprile 1990. L’identificazione dei terroristi baschi con un movimento patriottico in lotta per rivendicare diritti legittimi (a prescindere dai mezzi usati) è motivo ricorrente nella fraseologia e propaganda castrista (v. da ultimo G. MINÀ, Fidel, Sperling & Kupfer, Milano, 1991, p. 145).

[39] V. “Informe Latino Americano”, Londra, 9 maggio 1991.

[40] M.J. ALVAREZ, ‘Dentro de un año podrían ser indemnizados los españoles’, in “ABC internacional”, 8 maggio 1990.

[41] “ABC”, 23 luglio 1990.

[42] Id., 9 agosto 1990.

[43] Ampi servizi sull’argomento furono pubblicati dal quotidiano “ABC” (Madrid, 7-10 agosto 1990).

[44] “El país internacional", 22 aprile 1991.

[45] “Diario 16”, Madrid, 11 ottobre 1991.

[46] “ABC internecional”, 12 agosto 1991.

[47] Id., 10 settembre 1991.

[48] Id., 17 settembre 1991.

[49] Cfr., ‘Un viaje a Cuba’, in “ABC internacional”, 15 ottobre 1991. Hanno estesamente trattato del viaggio di Fraga anche “El país” (ed. internazionale) del 30 settembre 1991 e le riviste madrilene “Tribuna” e “Cambio 16”, entrambe del 7 ottobre scorso.