"METODO", N. 19/2003

Alessandro Bedini
(Giornalista e saggista)

GIORGIO LA PIRA, FRA ITALIA E MONDO

La figura e l’opera di Giorgio la Pira, che i fiorentini chiamano ancora oggi il Sindaco Santo, restano un punto di riferimento per tutti coloro che intendono la politica come servizio, non separabile da un profondo significato etico e dal rispetto per le tradizioni, sia laiche che religiose, che ad essa debbono ispirarsi.Cattolico integralista e allo stesso tempo raro esempio di tolleranza, dava del "fratello mio" a Togliatti, a Di Vittorio, a Secchia, la domanda che La Pira si pose fin dall’inizio della sua attività pubblica fu, messosi di fronte alle diverse dottrine politiche: "quali di esse dobbiamo accogliere e quali respingere volendo seguire fedelmente il pensiero cattolico?" La sua vita e la sua militanza politica, culturale e religiosa ruotano intorno a questo interrogativo. Sbaglierebbe chi volesse vedere in tale aspirazione, tutta cristiana, alla fratellanza, un cedimento nei confronti di ideologie estranee alla fede. E’ proprio nell’aver saputo coniugare la tolleranza con il rigore dottrinale che gli proveniva dalla sua intensa, vissuta religiosità, che consiste l’assoluta originalità della lezione lapiriana.
Egli infatti si richiamava molto spesso alla dottrina sociale della chiesa, da Leone XIII a Pio XII, e proprio in base a ciò formulò le critiche più radicali al pensiero di Hegel, di Rousseau e di Marx, opponendo ad esse il pensiero cattolico e insistendo, come soleva, sulla struttura integrale dell’uomo e sul suo fine trascendente.
Era nato nel 1904 a Pozzallo in provincia di Ragusa, primogenito di una famiglia di umili condizioni. A prezzo di grandi sacrifici era riuscito a diplomarsi in ragioneria, aveva poi conseguito la maturità classica e infine la Laurea in giurisprudenza a Messina. A Firenze era approdato nel 1924 e subito aveva manifestato la sua sollecitudine verso i poveri.
Nacque così, tra la fine degli anni Venti e i primi anni Trenta, l’esperienza della Messa di San Procolo, una chiesa abbandonata che diventò, grazie all’iniziativa di La Pira, un luogo d’incontro dove pregare e riflettere con i poveri sulla chiesa, su Firenze e sul mondo. Quell’esperienza proseguirà poi presso Badia Fiorentina. In quegli anni diventa docente di Diritto Romano all’Università di Firenze, presso la Facoltà di Giurisprudenza di via Laura dove gli studenti lo incontravano e si soffermavano con lui a parlare dei grandi progetti che il futuro Sindaco già accarezzava. Tra il 1929 e il 1939 entra in contatto con importanti personaggi del mondo cattolico italiano come padre Agostino Gemelli e Giuseppe Lazzati, che lo ricorderà affettuosamente in un celebre saggio comparso nel 1978 su La civiltà cattolica.
Sono gli anni dell’impegno culturale, mai disgiunto da quello religioso: La Pira collabora al Frontespizio milita nell’Azione Cattolica giovanile, e nel 1939 fonda la rivista Principi nella quale sottolinea i temi relativi alla persona umana che vengono prima di quelli politici: "tutti i valori creati, compresi quelli sociali, hanno per l’uomo funzione di mezzo, costituiscono quella scala di valori che egli deve normalmente percorrere per giungere al suo ultimo fine; sono l’itinerario al termine e al di là del quale c’è il riposo e la perfezione: Dio raggiunto e posseduto per sempre". Da qui traeva origine la sua ripulsa per il totalitarismo sotto qualsiasi forma: fascismo, nazismo, comunismo. A questo proposito La Pira era solito ripetere: "non per il proletariato o per la razza o per lo stato, Dio mi ha messo al mondo, ma per sviluppare nella mia vita interiore e nella mia vita di relazione la chiamata santa alla verità e al bene". Tra il 15 luglio e l’8 settembre del 1943 crea il foglio clandestino San Marco, avversato dal regime che costringerà La Pira a interrompere le pubblicazioni. Nel 1946 viene eletto all’Assemblea Costituente e nel 1947 insieme a Dossetti, Fanfani e Lazzati dà vita a Cronache sociali, una rivista che esprime, dal punto di vista cattolico, le istanze del rinnovamento democratico in Italia.
Nel 1948 è nominato Sottosegretario al Ministero del Lavoro ma l’impegno politico sembra andargli stretto. Nel 1951 viene eletto Sindaco di Firenze, lo rimarrà, salvo una breve interruzione, fino al 1965, sono gli anni del dopoguerra, della faticosa ricostruzione di un paese profondamente lacerato dalla guerra civile. Nel 1954 La Pira viene aspramente criticato dalle formazioni liberali per aver concesso il Parco delle Cascine per la Festa de l’Unità. Ne è profondamente amareggiato, scrive al suo antico amico mons. Angelo dell’Acqua: "uomini come me non devono essere partecipi di quel mondo politico che ha ed esige - almeno si dice - dimensioni tattiche che noi non possediamo. Non ho mai voluto essere né deputato né Sindaco: mi ci hanno violentemente posto in questi luoghi, nei quali, per starci e per restarci, ci vogliono attitudini di altro livello e di altra natura da quelli che tipi come il mio possiedono". Nel pubblicare questa lettera nel suo libro Giorgio La Pira. Un profilo e 24 lettere inedite, Amintore Fanfani gli contesterà con validi argomenti la negata vocazione alla politica. Intanto La Pira si dedica alla ricostruzione di Firenze. Sotto la sua amministrazione vengono ripristinati il ponte Alle Grazie, Vespucci e Santa Trinita, distrutti dai bombardamenti. Prende corpo il nuovo quartiere dell’Isolotto. Ma una grave crisi incombe sulla citta, si tratta dei circa tremila operai del Pignone che stanno per perdere il posto di lavoro a causa della decisione della direzione di chiudere la fabbrica. Il Sindaco si schiera dalla parte degli operai, non dorme la notte, mobilita mezzo mondo per tentare di impedire la chiusura. Alla fine si rivolge a Enrico Mattei, il presidente dell’AGIP obietta che lui si occupa di petrolio e non di metalmeccanica. Ma La Pira non demorde, si reca a Roma "assedia" Mattei e infine l’AGIP decide di affiliarsi allo stabilimento fiorentino: il Pignone era salvo. Tutto ciò gli valse le accuse di "comunista bianco" e "comunista di sagrestia", niente di più erratto. Ne è testimonianza uno scambio epistolare tra il Sindaco di Firenze e Don Sturzo. Quest’ultimo, a proposito dell’impegno di La Pira per gli operai, nel frattempo era intervenuto per difendere gli occupati della Richard-Ginori, della Galileo e della Fonderia delle Cure, ricordava a La Pira che i cattolici devono essere interclassisti e non statalisti, considerando lo stato come unica fonte del diritto, se non si vuol finire, ammoniva il leader della DC, in una sorta di "marxismo spiurio". Il Sindaco rispose con una lunga lettera. Dopo aver presentato al maestro di Caltagirone la cartella clinica di Firenze: 10000 disoccupati, 3000 sfrattati, 17000 libretti di povertà, concludeva: "davanti a tutti questi feriti buttati a terra dai ladroni, come la parabola del Samaritano, cosa deve fare il Sindaco? Può lavarsi le mani dicendo a tutti: scusate, non posso interessarmi di voi perchè non sono statalista ma interclassista?". Una risposta che traeva origine dal Vangelo e non dall’ideologia, è questo il tratto essenziale per capire la personalità di Giorgio La Pira. Nei suoi scritti la declinazione della parola evangelica con l’impegno sociale è ancor più chiara. Nel suo testo intitolato Premesse alla politica, egli muove dal principio secondo cui ogni movimento politico parte da una metafisica e da una metapolitica. Il nazismo e ogni nazionalismo oltranzista traggono origine dal pensiero hegeliano. Anche il marxismo si appoggia alle teorie di Hegel; l’economia e la politica borghese hanno le loro radici nell’illuminismo materialista. Per salvare l’uomo dalle deleterie concezioni che lo hanno travolto - scrive ancora La Pira ne Il valore della persona umana - bisogna ritornare alla retta concezione tramandata dal pensiero cattolico: l’uomo, svincolato da ogni monismo materialista o idealista, si presenta come soggetto che precede lo stato e tende, attraverso la vita sociale, a conseguire i fini immanenti alla sua natura. È evidente l’ ispirazione a San Tommaso che si concretizza nel postulare la società come mezzo e non come fine, subordinata dunque al benessere fisico e spirituale della persona. Nel suo libro Le città sono vive, egli enunciava così il suo ideale: "in una città un posto ci deve essere per tutti: un posto per pregare (la chiesa), un posto per amare (la casa), un posto per lavorare (l’officina), un posto per imparare (la scuola), un posto per guarire (l’ospedale)".
Un capitolo a parte merita l’attività internazionale di La Pira. Un attivismo che ha del profetico e che fu osteggiato dalle cancellerie occidentali, compresi i governi italiani. Il cattolico integralista aveva un profondo rispetto per l’Islâm e il mondo ebraico. Credeva nel dialogo fra le tre grandi religioni monoteiste e fece di questa convinzione uno dei pilastri della sua politica. Negli anni caldi della guerra algerina riuscì a fare incontrare a Firenze personalità francesi vicine a de Gaulle e rappresentanti dell’FLN; esponenti del mondo arabo e rappresentati di forze politiche della sinistra israeliana. Nel 1959, in piena guerra fredda, parlò a Mosca di fronte al Soviet Supremo insistendo sui temi della distenzione e del disarmo. Da sempre vicino al mondo arabo mediorientale, fece di tutto per scongiurare la guerra dei sei giorni e riavvicinare il Cairo e Tel Aviv. La sua attività internazionale fu incessante. Nel 1952 aveva organizzato a Firenze il primo Convegno Internazionale per la Pace e la Civiltà Cristiana e nel 1955 i sindaci di moltissime capitali del mondo siglarono in Palazzo Vecchio un patto di amicizia. Sempre nel ’52 era stato pubblicato un suo opuscolo di un centinaio di pagine dal titolo L’attesa della povera gente, dove La Pira, dopo aver esposto le dimensioni mondiali dei problemi dei poveri, si chiedeva se alla luce della fede religiosa, della metafisica, della storia dell’economia e della politica, i due più tremendi nemici dei poveri - disoccupazione e miseria - possano essere vinti. La risposta naturalmente era affermativa. L’attualità di un simile interrogativo, nell’epoca della globalizzazione, balza agli occhi. Nel 1965 decide di recarsi ad Hanoi per incontrare Ho Chi Minh. Assieme al presidente vietnamita mise a punto una serie di proposte che, se fossero state accettate dall’Occidente, avrebbero potuto fermare la sanguinosa guerra del Vietnam con almeno dieci anni d’anticipo. La Pira per la sua attività di politica estera, ebbe lettere di consenso da Nasser e da Chrušcëv ma anche da Ben Gurion e da Thomas Merton. Alla sua morte Paolo VI, in un telegramma all’Arcivescovo di Firenze scriveva: "con cuore commosso ricordiamo la coerente testimonianza cristiana, il sincero anelito ed il contributo alla pace ed alla concordia tra gli uomini". Sulle colonne di Paese sera, quotidiano vicino al Partito Comunista, Giulio Goria osservava: "Giorgio La Pira, con i suoi occhi sorridenti, il gesto affabile, il suo candore, la sua innocenza è stato, in realtà, una delle coscienze più alte e singolari che il cattolicesimo moderno abbia prodotto in Italia. Credeva nella profezia e nella Provvidenza in modo totale. È andato tra i popoli, povero ambasciatore e senza credenziali, gridando pace e sembrando un Don Chisciotte soltanto ai cinici. Per lui la parola di Cristo non doveva restare scritta sulla pagina, ma inserirsi direttamente nella realtà per modificarla dal profondo. Molta di questa forza è restata sterile per il contesto nel quale era posta". Anche oggi la parola di La Pira resterebbe sterile? L’epoca che stiamo vivendo è un’epoca di guerre, di violenza, di sopraffazioni come la sua.
Giorgio La Pira, profeta disarmato, avrebbe comunque levato alta la sua sfida. Una sfida che sgorga dal Vangelo e che parla di pace e giustizia tra i popoli. Una pace e una giustizia che gli uomini, oggi più che mai, sembrano aver dimenticato. È forse anche per questo che, al di là delle ricorrenze, il Sindaco Santo è stato circondato dall’oblio, proprio come nei suoi ultimi anni di vita che furono anni di doloroso isolamento. Era il 5 novembre 1977, un "sabato senza vespri", quello che lui amava. La Pira concluse quel giorno il suo pellegrinaggio terreno. Nel 1986 inizia la causa di beatificazione, ancora in corso. Specie negli ultimi tempi era solito ripetere con Isaia: "Venite, saliamo sul monte del Signore, al tempio del Dio di Giacobbe perchè c’istruisca sulle sue vie e camminiamo nei suoi sentieri".