Non ci sembra azzardato porre sullo
stesso piano i tragici fatti nell’ex Jugoslavia, con quelli che in un triste
funerale d’epoca travagliarono le stesse regioni all’indomani della Grande
Guerra. La prima e seconda guerra balcanica senz’altro si contraddistinsero
per una durata relativamente breve (ottobre 1912-agosto 1913) e per un
inferiore spargimento di sangue, ma l’indubbia determinazione guerrafondaia
della Serbia, oggi come allora rappresenta un pericolo per la pace in un’Europa
civile. Analizzare puntualmente le ragioni di un conflitto tra fratelli
è impresa ardua, ma illustrare brevemente le radici di un evento
così vicino a noi ci sembra doveroso.
Che l’internazionalismo proletario
non sia stato in grado di debellare le spinte nazionalistiche è
ben noto; ma lo scoppio di un vero e proprio conflitto armato è
indice di quanto errata e fallimentare sia stata la formula degenerata
del comunismo mondiale: l’autogestione titista. Dopo quasi mezzo secolo
sono affiorati nei Balcani vecchi attriti e piaghe irrimarginabili, come
se il tempo non fosse trascorso. A Zagabria, Lubiana, Skopje, Sarajevo,
Belgrado, gli stendardi, le bandiere e movimenti ormai dimenticati, sono
riapparsi in un clima da epopea absburgica.
Il primo dopoguerra
Le cronache registrano le identiche
problematiche che – a fine conflitto mondiale – partorirono nel dicembre
1918 il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (SHS) retto da Pietro
I e definito dai trattati di pace del 1919-20. La nuova entità risultava
costituita da: Bosnia-Erzegovina, Croazia, Dalmazia, Slovenia (facenti
parte dell’ex impero austro-ungarico); gl’indipendenti Montenegro e Serbia
(comprendente la Macedonia); le ex province meridionali ungheresi; e la
Kosova (di etnia albanese). Nell’ottobre 1929 assunse la denominazione
di Regno della Jugoslavia, diviso in nove banati, senza rispetto
per le unità storiche ed etniche, e con l’egemonia della nazione
serba (Istria e Fiume appartenevano all’Italia).
L’unità non fu mai tollerata
dai Popoli slavi non serbi, indebolendo il regno della famiglia Karadjeordjevic,
al punto che il 6 dicembre 1929 il monarca serbo, Alessandro, instaurò
la dittatura. Il sovrano fu assassinato dai Croati a Marsiglia il 9 ottobre
1934, anno che segnò il ritorno al regime costituzionale sotto la
reggenza del principe Paolo (con il minorenne Pietro II; re dal 27 marzo
1941 fino all’invasione di Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria del 6-18
aprile dello stesso anno).
I nazi-fascisti e la resistenza
La Slovenia fu divisa fra Roma e
Berlino; la Dalmazia all’Italia; la Macedonia venne annessa alla Bulgaria;
il saliente della Drava e metà della Backa all’Ungheria; mentre
la Serbia era retta da un governo militare tedesco, cui seguì uno
quisling; Croazia e Montenegro nominalmente autonome; e all’Albania
spettarono di diritto i territori abitati dalla sua gente: Kosova, il porto
di Ulqin (Dulcigno), zone di Dibër e Strugë.
Con lo smembramento prese piede
la resistenza; contro gli occupatori e gli ustascia di Ante Pavelic
si schierarono i cetnici del gen. Draza Mihajlovic (monarchici della Serbia
occidentale), i partigiani comunisti di Tito (parte orientale e meridionale
del Paese), gli autonomisti sloveni (belagarda) e gruppi islamici.
Oltre a combattere i nazi-fascisti, queste formazioni si contrastarono
reciprocamente: lotte senza quartiere le cui prime vittime furono gl’inermi
cittadini – quasi due milioni di morti (compresi 700 mila serbi ortodossi
massacrati dagli ustascia); colpite le minoranze italiane (eccidi
delle foibe) e tedesca. Oltre 300 mila nostri connazionali si rifugiarono
in patria da Istria, Dalmazia e Fiume (attualmente tra Croazia e Slovenia
si contano 20-25 mila italiani).
Nel corso della guerra gli Alleati
dettero il loro sostegno a Tito, e Pietro II gli affidò la direzione
esclusiva della resistenza. I cetnici di Mihajlovic si sfaldarono
gradualmente, sia per gli ambigui rapporti con le autorità d’occupazione
italiane, sia perché Tito accolse nel Consiglio Antifascista
di Liberazione Nazionale (AVNOJ) anche gruppi di tendenze non
comuniste.
La liberazione
La repubblica fu proclamata il 29 novembre 1945; di assetto federale e struttura economico-sociale di tenore marxista. Grazie alla rottura con Stalin – manifestatasi apertamente nel 1948 – la Jugoslavia godé di aiuti occidentali necessari a superare le difficoltà del dopoguerra (significativo il Patto balcanico del 1953 stretto con Grecia e Turchia). In politica estera Belgrado si fece portavoce con India ed Egitto del Movimento dei Paesi-Non-Allineati, cercando di assumerne la leadership, ma contemporaneamente non abbandonò mai le mire espansionistiche – di schietta impronta imperialistica granserba – prima su Albania, Austria, Bulgaria, Grecia, Italia e Ungheria, e successivamente sulla sola Albania (priva di potenze "protettrici" di alto profilo), nonché opprimendo la popolazione martire della Kosova (stragi del ’68, ’81 e ’88-89).
La disgregazione
Dalla "primavera di Praga" ad oggi
si sono succedute due occasioni perse: l’ultimo decennio di Tito (1968-1980)
in cui si potevano porre le basi per un sistema democratico e di compattamento
federale, opportunità sfuggita alla megalomane miopia del dittatore;
e i successivi del dopo-Tito (1980-1990), dove personalità anonime
hanno gestito l’apparato socio-economico di un Paese strangolato dall’inflazione,
incapace di adeguarsi alle esigenze del mercato, e dal crescente nazionalismo
granserbo («laddove esiste una tomba di un serbo è Patria!»;
al censimento 1981 i Serbi risultavano: 54,6% in Vojvodina; 32,4 in Bosnia-Erzegovina;
13,2 nella Kosova; 11,8 in Croazia; 3,4 in Montenegro; 2,4 in Macedonia;
2,3 in Slovenia).
È riemersa la differenza
fra le diverse etnie, proprio perché il gruppo etnico maggioritario
(serbo) ha detenuto il potere a danno di Croati e Sloveni, economicamente
più sviluppati e protesi verso l’Europa. L’indipendenza, proclamata
nel 1991 e 1992, delle ex repubbliche federative, più la Kosova
(ai sensi della Costituzione del 1974), ha contribuito allo sviluppo di
un drammatico scontro, alla cui crisi si è data una svolta riconoscendo
– da parte della comunità internazionale e dell’ONU – le aspirazioni
di Croazia, Slovenia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina; rafforzando le speranze
degli Albanesi della Kosova (terza nazionalità dell’ex Jugoslavia)
che lottano per l’indipendenza, e degli Ungheresi della Vojvodina, tutti
sfruttati nel corso del XX secolo dal feroce dominio serbo: la cui brutale
atrocità serba nei confronti della Bosnia-Erzegovina, lo testimonia
senza alcun dubbio.
Come, d’altronde, l’abbattimento
del nostro G-222, ad opera di una delle fazioni in lotta (al di là
di rivelazioni del momento), rientra nella strategia terroristica da lungo
tempo messa in atto nella regione dall’ultimo governo comunista al potere,
dove gl’interessi dell’antistorico regime serbo controllato da Miloševic
collimano con le più sfrenate ambizioni nazionalistiche dei cetnici.