Bibl.: «L’altra Europa», Lungro (CS), IV (1992), NN. 3-4/13-14, pp. 39-42

Giovanni Armillotta
LA TERZA GUERRA BALCANICA

Non ci sembra azzardato porre sullo stesso piano i tragici fatti nell’ex Jugoslavia, con quelli che in un triste funerale d’epoca travagliarono le stesse regioni all’indomani della Grande Guerra. La prima e seconda guerra balcanica senz’altro si contraddistinsero per una durata relativamente breve (ottobre 1912-agosto 1913) e per un inferiore spargimento di sangue, ma l’indubbia determinazione guerrafondaia della Serbia, oggi come allora rappresenta un pericolo per la pace in un’Europa civile. Analizzare puntualmente le ragioni di un conflitto tra fratelli è impresa ardua, ma illustrare brevemente le radici di un evento così vicino a noi ci sembra doveroso.
Che l’internazionalismo proletario non sia stato in grado di debellare le spinte nazionalistiche è ben noto; ma lo scoppio di un vero e proprio conflitto armato è indice di quanto errata e fallimentare sia stata la formula degenerata del comunismo mondiale: l’autogestione titista. Dopo quasi mezzo secolo sono affiorati nei Balcani vecchi attriti e piaghe irrimarginabili, come se il tempo non fosse trascorso. A Zagabria, Lubiana, Skopje, Sarajevo, Belgrado, gli stendardi, le bandiere e movimenti ormai dimenticati, sono riapparsi in un clima da epopea absburgica.

 

Il primo dopoguerra

Le cronache registrano le identiche problematiche che – a fine conflitto mondiale – partorirono nel dicembre 1918 il Regno dei Serbi, dei Croati e degli Sloveni (SHS) retto da Pietro I e definito dai trattati di pace del 1919-20. La nuova entità risultava costituita da: Bosnia-Erzegovina, Croazia, Dalmazia, Slovenia (facenti parte dell’ex impero austro-ungarico); gl’indipendenti Montenegro e Serbia (comprendente la Macedonia); le ex province meridionali ungheresi; e la Kosova (di etnia albanese). Nell’ottobre 1929 assunse la denominazione di Regno della Jugoslavia, diviso in nove banati, senza rispetto per le unità storiche ed etniche, e con l’egemonia della nazione serba (Istria e Fiume appartenevano all’Italia).
L’unità non fu mai tollerata dai Popoli slavi non serbi, indebolendo il regno della famiglia Karadjeordjevic, al punto che il 6 dicembre 1929 il monarca serbo, Alessandro, instaurò la dittatura. Il sovrano fu assassinato dai Croati a Marsiglia il 9 ottobre 1934, anno che segnò il ritorno al regime costituzionale sotto la reggenza del principe Paolo (con il minorenne Pietro II; re dal 27 marzo 1941 fino all’invasione di Germania, Italia, Ungheria e Bulgaria del 6-18 aprile dello stesso anno).

 

I nazi-fascisti e la resistenza

La Slovenia fu divisa fra Roma e Berlino; la Dalmazia all’Italia; la Macedonia venne annessa alla Bulgaria; il saliente della Drava e metà della Backa all’Ungheria; mentre la Serbia era retta da un governo militare tedesco, cui seguì uno quisling; Croazia e Montenegro nominalmente autonome; e all’Albania spettarono di diritto i territori abitati dalla sua gente: Kosova, il porto di Ulqin (Dulcigno), zone di Dibër e Strugë.
Con lo smembramento prese piede la resistenza; contro gli occupatori e gli ustascia di Ante Pavelic si schierarono i cetnici del gen. Draza Mihajlovic (monarchici della Serbia occidentale), i partigiani comunisti di Tito (parte orientale e meridionale del Paese), gli autonomisti sloveni (belagarda) e gruppi islamici. Oltre a combattere i nazi-fascisti, queste formazioni si contrastarono reciprocamente: lotte senza quartiere le cui prime vittime furono gl’inermi cittadini – quasi due milioni di morti (compresi 700 mila serbi ortodossi massacrati dagli ustascia); colpite le minoranze italiane (eccidi delle foibe) e tedesca. Oltre 300 mila nostri connazionali si rifugiarono in patria da Istria, Dalmazia e Fiume (attualmente tra Croazia e Slovenia si contano 20-25 mila italiani).
Nel corso della guerra gli Alleati dettero il loro sostegno a Tito, e Pietro II gli affidò la direzione esclusiva della resistenza. I cetnici di Mihajlovic si sfaldarono gradualmente, sia per gli ambigui rapporti con le autorità d’occupazione italiane, sia perché Tito accolse nel Consiglio Antifascista di Liberazione Nazionale (AVNOJ) anche gruppi di tendenze non comuniste.

 

La liberazione

La repubblica fu proclamata il 29 novembre 1945; di assetto federale e struttura economico-sociale di tenore marxista. Grazie alla rottura con Stalin – manifestatasi apertamente nel 1948 – la Jugoslavia godé di aiuti occidentali necessari a superare le difficoltà del dopoguerra (significativo il Patto balcanico del 1953 stretto con Grecia e Turchia). In politica estera Belgrado si fece portavoce con India ed Egitto del Movimento dei Paesi-Non-Allineati, cercando di assumerne la leadership, ma contemporaneamente non abbandonò mai le mire espansionistiche – di schietta impronta imperialistica granserba – prima su Albania, Austria, Bulgaria, Grecia, Italia e Ungheria, e successivamente sulla sola Albania (priva di potenze "protettrici" di alto profilo), nonché opprimendo la popolazione martire della Kosova (stragi del ’68, ’81 e ’88-89).

 

La disgregazione

Dalla "primavera di Praga" ad oggi si sono succedute due occasioni perse: l’ultimo decennio di Tito (1968-1980) in cui si potevano porre le basi per un sistema democratico e di compattamento federale, opportunità sfuggita alla megalomane miopia del dittatore; e i successivi del dopo-Tito (1980-1990), dove personalità anonime hanno gestito l’apparato socio-economico di un Paese strangolato dall’inflazione, incapace di adeguarsi alle esigenze del mercato, e dal crescente nazionalismo granserbo («laddove esiste una tomba di un serbo è Patria!»; al censimento 1981 i Serbi risultavano: 54,6% in Vojvodina; 32,4 in Bosnia-Erzegovina; 13,2 nella Kosova; 11,8 in Croazia; 3,4 in Montenegro; 2,4 in Macedonia; 2,3 in Slovenia).
È riemersa la differenza fra le diverse etnie, proprio perché il gruppo etnico maggioritario (serbo) ha detenuto il potere a danno di Croati e Sloveni, economicamente più sviluppati e protesi verso l’Europa. L’indipendenza, proclamata nel 1991 e 1992, delle ex repubbliche federative, più la Kosova (ai sensi della Costituzione del 1974), ha contribuito allo sviluppo di un drammatico scontro, alla cui crisi si è data una svolta riconoscendo – da parte della comunità internazionale e dell’ONU – le aspirazioni di Croazia, Slovenia, Macedonia, Bosnia-Erzegovina; rafforzando le speranze degli Albanesi della Kosova (terza nazionalità dell’ex Jugoslavia) che lottano per l’indipendenza, e degli Ungheresi della Vojvodina, tutti sfruttati nel corso del XX secolo dal feroce dominio serbo: la cui brutale atrocità serba nei confronti della Bosnia-Erzegovina, lo testimonia senza alcun dubbio.
Come, d’altronde, l’abbattimento del nostro G-222, ad opera di una delle fazioni in lotta (al di là di rivelazioni del momento), rientra nella strategia terroristica da lungo tempo messa in atto nella regione dall’ultimo governo comunista al potere, dove gl’interessi dell’antistorico regime serbo controllato da Miloševic collimano con le più sfrenate ambizioni nazionalistiche dei cetnici.

 
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© Giovanni Armillotta, 1998