Associazione di Studi Extraeuropei
Pisa

«Africana», II (1996)

Vittorio Antonio Salvadorini
STORIA E ISTITUZIONI DEI PAESI EXTRAEUROPEI
UNA CHIMERA, UNA PROVOCAZIONE O UNA NECESSITÀ

La rivista «Africana» si presenta con una serie di lavori prodotti da studiosi di discipline relative a Africa, America latina ed Asia, a significare la volontà di realizzare gli scopi dell’Associazione di Studi Extraeuropei (ASE); i lavori sono pubblicati in ordine alfabetico, secondo la nostra tradizione, e senza la consueta correzione redazionale delle bozze: la necessità assoluta di risparmiare perfino le spese postali ha imposto l’invio di dischetti rigorosamente controllati dagli autori, in modo che il procedimento di stampa fosse più semplice e rapido; la responsabilità di errori e pertanto esclusivamente degli autori.
«Africana» esce come portavoce dell’ASE, – il cui Statuto è pubblicato in fondo – proprio mentre sorgono numerose associazioni specifiche (RED, SIHMED, CISAL, ecc.) ma anche mentre si verificano significative fusioni (ISIAO); mi sembra pertanto che si debba aprire o, meglio, continuare una discussione che può essere aspra e contraddittoria per molti aspetti, ma, a mio parere, basilare per il futuro delle Facoltà di Scienze politiche, recentemente costrette dall’approvazione della tabella scientifico-disciplinare a subire un riordinamento che nulla ha a che fare con un democratico dibattito interno alle Facoltà; la tabella, infatti, è stata approvata dopo che le Facoltà erano state coinvolte nella discussione alla fine degli anni ottanta; negli ultimi anni il dibattito è stato confinato nel gruppo dei presidi, giunti a concludere il lavoro senza verificare se all’interno delle Facoltà si fosse d’accordo o meno sulle proposte conclusive.
Una delle conseguenze più gravi della tabella è la scomparsa dall’elenco dei settori scientifico-disciplinari della Storia dei Paesi extraeuropei, materia sulla cui validità ritengo di dover spendere alcune parole per invitare ad un’ulteriore riflessione.
Se i termini casa comune, globalità, ecc., cui tanto spesso si fa riferimento, hanno un senso, si deve ritenere essenziale, per le Facoltà di scienze politiche, il termine extraeuropeo, intendendo con ciò il complesso dei problemi storici, politici ed istituzionali che riguardano i Paesi dell’America latina, dell’Asia, dell’Africa e del Pacifico, condizionati dalle politiche dei Paesi più forti, tecnologicamente più avanzati.
Anni fa, durante la spettacolare gemmazione accademica di discipline specialistiche, fenomeno legato più a effimera moda che a reali esigenze di approfondimento, si verificò, anche per oggettivi motivi di mutamento delle relazioni internazionali, la scomparsa di Storia e politica coloniale, sostituita nella maggioranza dei casi, vale a dire nella maggioranza degli statuti delle Facoltà di Scienze politiche, da un’ambigua Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici e, in altri casi, da Storia dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente, Storia dell’Africa subsahariana, Storia dell’Africa contemporanea, Storia del subcontinente indiano, Storia dell’Estremo Oriente, ecc. In effetti scomparve una disciplina di riferimento sui problemi dei Paesi extraeuropei, con la conseguente cancellazione di storia e problemi relativi all’America latina; lo studio dei continenti diversi dall’Europa divenne possibile soprattutto in certe Facoltà di lettere e nei corsi di laurea in storia ove insegnamenti specialistici già esistevano o vennero inseriti negli statuti, anche senza immediata attivazione.
Nelle Facoltà di Scienze politiche la comparsa di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici fu accettata con sgomento e talora con ilarità, più che con convinzione; ho definito ambigua la disciplina perché fin dall’inizio non si volle comprendere che averla “inventata” in omaggio alla decolonizzazione politica significava averla impoverita sul piano dello studio delle relazioni internazionali, con l’esclusione dell’America latina; né, allo stesso tempo, fu sufficientemente difesa la sua dignità scientifica, per la verità messa in dubbio più da particolari vicende concorsuali, - a cui dette ampio risalto Carlo Giglio con il suo noto scritto “Il cavallo di Caligola” - che non dalla dizione, su cui alcuni vollero, a mio parere con impreveggenza, pesantemente e ironicamente disquisire.
Ho fatto il nome di Carlo Giglio e sarà l’unico che farò in questa circostanza, perché egli costituì la voce più convinta per il mantenimento di una materia che da altri suoi colleghi allora in cattedra, veniva stravolta a seconda delle personali competenze e convinzioni; si trattava di poche persone, legate più ad esperienze africane che alla storia e politica coloniale intesa come storia delle relazioni internazionali, storia della colonizzazione, storia delle espansioni, storia dei Paesi extraeuropei.
Al momento della decolonizzazione sembrò che fosse opportuno, per la dignità dei Paesi assurti alla libertà politica, escludere dalla nomenclatura universitaria il termine coloniale, nel migliore dei casi in una generosa illusione che il processo potesse portare i nuovi membri della comunità internazionale alla piena indipendenza, o forse nella cinica convinzione che fosse necessità dei tempi indulgere all’uso di termini nuovi che tuttavia nulla cambiavano nella pratica delle relazioni internazionali. In altri Paesi, europei ed extraeuropei, rimasero nella terminologia universitaria la Storia della colonizzazione, la storia della decolonizzazione, la storia del colonialismo, la storia dell’imperialismo, ecc.; da noi si pensò forse che cancellare storia e politica coloniale potesse ridare verginità al nostro paese o che i problemi legati a quell’esperienza fossero improvvisamente divenuti trascurabili, non importanti, privi di effetti sul mondo contemporaneo.
Per quanto attiene alla formazione dei giovani iscritti alle Facoltà di scienze politiche, durante il pullulante sviluppo di discipline specialistiche, la difesa di storia dei Paesi afroasiatici, divenuta storia e istituzioni in omaggio ad uno dei cattedratici, sembrava una battaglia di retroguardia, malgrado il fatto che nelle Facoltà di lettere e nei corsi di laurea in storia apparissero “storia e istituzioni” di questo e quel paese, di questo e quel continente.
Mi sembra di poter affermare che mentre si andava profilando, grazie allo straordinario e incalzante sviluppo dei mezzi di comunicazione, l’opportunità, la convenienza, la necessità di una riflessione su tutti i fenomeni politici del mondo contemporaneo, tanto che Facoltà universitarie di antica tradizione si rendevano conto delle nuove circostanze e adeguavano a queste i propri ordinamenti, nelle Facoltà di scienze politiche, costituzionalmente legate allo studio e all’analisi dei problemi internazionali, si frammentava l’unica disciplina che offrisse uno sguardo d’insieme su tali problemi e addirittura si facevano scomparire l’America latina e i Paesi del Pacifico dalla conoscenza dei giovani.
Il nostro è davvero un paese di incomprensibili contraddizioni; da un lato si aumenta il numero delle discipline che portano un sensibile e originale contributo scientifico, didattico, culturale alle giovani generazioni, tanto più bisognose in quanto meno preparate, salvo rare eccezioni, dalla scuola superiore; d’altro lato si priva la Facoltà di scienze politiche di una disciplina che fornisca uno sguardo d’insieme almeno sui problemi politici internazionali. La storia delle relazioni internazionali è stata disciplina eminentemente eurocentrica; deve la sua fama soprattutto agli studi e alle ricerche sulle relazioni fra i Paesi europei, sui Paesi “che contano” per dirla banalmente e in breve, mentre il ruolo, le istituzioni, le dinamiche sociali dei Paesi extraeuropei, fattori indispensabili per lo sviluppo della conoscenza del mondo contemporaneo, vengono marginalizzate.
È noto che le Facoltà di scienze politiche non preparano i giovani a sbocchi professionali specifici ed esclusivi, malgrado gli indirizzi in cui si suddividono nel biennio cosiddetto di specializzazione; anche per questo motivo mi pare che una disciplina di base che apra la conoscenza ai problemi globali sia non solo opportuna, bensì necessaria; le storie specialistiche si distinguono per analisi dettagliate, tematicamente e cronologicamente differenziate, di determinate aree geografiche, di continenti o di subcontinenti. In Italia, attualmente, dopo l’autonomia universitaria, le storie specialistiche sono possibili soltanto in presenza di notevoli, ragionevoli risorse finanziarie; in ogni caso trovano, a mio parere, dignità scientifica e per tradizione nelle Facoltà di lettere e nei corsi di laurea in storia. Nelle Facoltà di scienze politiche si deve privilegiare lo studio storico degli aspetti internazionali, del ruolo e delle dimensioni nella dinamica globale dei vari Paesi che costituiscono la comunità internazionale. Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici non è insegnata in tutte le Facoltà, né dove esiste è sempre obbligatoria; alcune sedi hanno le storie “continentali” - dico così per brevità - ma si tratta di insegnamenti, nella maggioranza dei casi, opzionali e, in quanto “specialistici”, geograficamente o, se si preferisce, territorialmente limitati; dobbiamo esser grati a quei colleghi che, dopo un’iniziale diffidenza, si sono poi battuti per inserire negli statuti e attivare storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici, coperta adesso da professori di prima e seconda fascia di notevole spessore.
Non mi si venga a dire che dobbiamo guardare all’estero, sia in Europa che altrove, perché nelle Facoltà di scienze politiche la storia è quasi ignorata o relegata in gruppi di discipline opzionali o circoscritta a temi particolari, come, ad esempio, a Leuven la Neuve, ove ci si occupa del mondo arabo contemporaneo.
Io penso ad una materia - sulla cui nomenclatura si può discutere, perché se nella nostra tradizione accademica è stata presente storia dei Paesi extraeuropei, si potrebbero accettare “politica internazionale”, o geopolitica, formula di moda in alcuni Paesi, o anche, al limite, geostrategia - che s’innesti sul tronco di storia delle relazioni internazionali ma dedicata prevalentemente ai problemi dei Paesi extraeuropei, sia nei loro rapporti reciproci, sia nei rapporti con Europa, Stati Uniti, Canada e Giappone senza trascurare gli aspetti fondamentali dei loro ordinamenti interni. Una materia che sul piano didattico preveda caratteristiche interdisciplinari; ad esempio, le caratteristiche fondamentali del diritto musulmano, imprescindibili per la comprensione della politica dei Paesi arabi, teorie o norme che altre discipline ritengono obsolete (come, sempre ad esempio, la neutra definizione di territori non autonomi creata dall’art. 73 della Carta dell’ONU), ma storicamente importanti per comprendere atteggiamenti internazionali di uno Stato, nella questione specifica la posizione di Panama o dell’India; e, ancora prendendo ad esempio l’India, come parlarne senza una seria conoscenza delle sue stratificazioni sociali?
Mi sembra evidente che la mia proposta mette in rilievo soprattutto l’importanza didattica della materia che, per sfuggire a probabili accuse di dilettantismo o di pressappochismo, abbisogna di professori la cui produzione nel campo della personale competenza, naturalmente variegata data l’ampiezza della disciplina, risponda alle normali, consuete regole di originalità e scientificità. Ed oggi, fortunatamente, studiosi che possano far parte di un settore scientifico-disciplinare come quello ideato, in cui dovrebbero riunirsi professori di storia dell’Africa, storia dell’Asia, storia dell’America latina, storia dei Paesi del Pacifico (e materie affini) non soltanto non mancano, ma sono di alta qualificazione scientifica.
Immagino le proteste, le accuse, l’allarme per questa proposta, giacché ricordo benissimo tutte le obbiezioni che a suo tempo si fecero per storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici, ma si tratta di obbiezioni senza fondamento. Retorica, pretestuosa, vecchia, è la critica sulla ampiezza della materia; si è mai fatto un rilievo all’ampiezza di discipline come “Storia moderna”, “Storia contemporanea”? È noto che nell’ambito di tali materie ciascuno si dedica ad un particolare settore per quanto riguarda competenza e produzione specifica; ciò non dovrebbe essere lecito né comprensibile in un’altra disciplina?
Il passaggio dalla dipendenza alla sovranità politica, la dipendenza economica, la marcia verso la democrazia rappresentativa, la conquista dei diritti civili e politici, la garanzia dei diritti umani, la contraddizione fra tutela di tali diritti e sviluppo, la cooperazione, sono elementi essenziali per la conoscenza del mondo contemporaneo; le discipline specialistiche che se ne occupano limitano le loro analisi a campioni che non sono né possono essere globalmente rappresentativi, ma soltanto indicativi.
La storia dei Paesi extraeuropei deve premettere la ricostruzione storica all’analisi comparativa, alla disquisizione teorica; che senso ha, per esempio, l’analisi dei problemi della Somalia, o della Corea, o del Guatemala, studiati isolatamente, come scissi dalla realtà politica globale? Ogni lavoro di tal genere ha validità scientifica pari alla serietà della ricerca, della informazione, della documentazione, del rigore filologico, ma non può essere l’esclusivo strumento di formazione di un gruppo di studenti universitari nell’ambito di una disciplina. Io credo che non si possa studiare il particolare senza avere una visione generale, complessiva, dei fenomeni politici contemporanei e per questo sostengo la necessità di una disciplina di base, obbligatoria, fondamentale per la Facoltà di scienze politiche, da denominare storia e istituzioni dei Paesi extraeuropei o geopolitica.
Si pretende che i nostri studenti conoscano alla perfezione Hobbes e Kant e non ci si preoccupa che sappiano qualcosa sui regimi dell’India, dell’Australia o cl Cile?
È evidente che ogni professore deve continuare a professare ciò che meglio conosce nel corso monografico, che tuttavia ha senso soltanto se inserito in un quadro generale che aiuti e completi quanto più possibile la formazione dei giovani; e non mi si dica che ciò non è scientifico, perché, ad esempio, quando si approfondiva lo studio di Sallustio, era obbligatorio conoscere tutta la storia della lingua e della letteratura latina, dalla Cista Ficoroni a Lattanzio. Voglio dire, per esser più chiaro, che un corso monografico non può prescindere, per la formazione del giovane, dalla storia della espansione coloniale, della decolonizzazione, dei problemi dello sviluppo e del sottosviluppo, dei regimi autoctoni e di quelli importati, ecc. A chi verrebbe in mente di far studiare, sempre ad esempio, soltanto l’anatomia della mano, senza pretendere la conoscenza della anatomia umana? Il vero problema, pertanto, è quello del riferimento manualistico, che già una volta abbiamo affrontato, per la verità senza trovare molte concordi opinioni; ma è certo che un brillantissimo corso monografico, seppur altamente istruttivo sul piano metodologico, non può sostituirsi alla conoscenza generale del mondo contemporaneo, che, a quanto mi consta, non viene impartita in nessuna disciplina storica.
L’organo dell’Associazione di Studi Extraeuropei, «Africana», vede il contributo di studiosi appartenenti a diversi settori disciplinari perché continuo ad alimentare la speranza che il CUN voglia rivedere le sue posizioni e creare un settore “extraeuropeo”, imperniato sulla storia e le istituzioni, per colmare un’evidente lacuna negli studi delle Facoltà di scienze politiche, da cui dovrebbero uscire giovani informati sulle varietà di regimi esistenti nella casa comune, sulle relazioni internazionali dei vari Stati, sulle prospettive concrete e sugli accordi di cooperazione. Mi auguro che questa mia opinione, - del resto suffragata dalle conclusioni deliberate in una riunione pisana del febbraio 1995 a cui parteciparono diversi colleghi, basata sulla esistenza del “Centro Studi sui Paesi extraeuropei” dell’Università di Pavia e sul dottorato “Storia, istituzioni e relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei” dell’Università di Pisa a cui collaborano le Università di Torino, Roma e Trieste -, possa suscitare un fecondo dibattito e contribuire alla formazione del settore disciplinare invocato. Mi preme rimarcare come non tutte le università e non soltanto le Facoltà di scienze politiche, possano contemporaneamente attivare insegnamenti relativi alla storia e politica dell’Africa, dell’Asia, dell’America latina e dei Paesi del Pacifico, per i limiti finanziari a cui ho già accennato; pertanto una disciplina che riunisca, affronti e valuti i problemi comuni a tali Paesi, lasciando al singolo professore la consueta costituzionale libertà di ricerca, di insegnamento ed effettuazione del corso, appare essenziale, utile e necessaria.

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