Vittorio
Antonio Salvadorini
STORIA
E ISTITUZIONI DEI PAESI EXTRAEUROPEI
UNA
CHIMERA, UNA PROVOCAZIONE O UNA NECESSITÀ
La rivista «Africana» si presenta con
una serie di lavori prodotti da studiosi di discipline relative a Africa,
America latina ed Asia, a significare la volontà di realizzare gli
scopi dell’Associazione di Studi Extraeuropei (ASE); i lavori sono pubblicati
in ordine alfabetico, secondo la nostra tradizione, e senza la consueta
correzione redazionale delle bozze: la necessità assoluta di risparmiare
perfino le spese postali ha imposto l’invio di dischetti rigorosamente
controllati dagli autori, in modo che il procedimento di stampa fosse più
semplice e rapido; la responsabilità di errori e pertanto esclusivamente
degli autori.
«Africana» esce come portavoce dell’ASE,
– il cui Statuto è pubblicato in fondo – proprio mentre sorgono
numerose associazioni specifiche (RED, SIHMED, CISAL, ecc.) ma anche mentre
si verificano significative fusioni (ISIAO); mi sembra pertanto che si
debba aprire o, meglio, continuare una discussione che può essere
aspra e contraddittoria per molti aspetti, ma, a mio parere, basilare per
il futuro delle Facoltà di Scienze politiche, recentemente costrette
dall’approvazione della tabella scientifico-disciplinare a subire un riordinamento
che nulla ha a che fare con un democratico dibattito interno alle Facoltà;
la tabella, infatti, è stata approvata dopo che le Facoltà
erano state coinvolte nella discussione alla fine degli anni ottanta; negli
ultimi anni il dibattito è stato confinato nel gruppo dei presidi,
giunti a concludere il lavoro senza verificare se all’interno delle Facoltà
si fosse d’accordo o meno sulle proposte conclusive.
Una delle conseguenze più gravi della tabella
è la scomparsa dall’elenco dei settori scientifico-disciplinari
della Storia dei Paesi extraeuropei, materia sulla cui validità
ritengo di dover spendere alcune parole per invitare ad un’ulteriore riflessione.
Se i termini casa comune, globalità, ecc., cui
tanto spesso si fa riferimento, hanno un senso, si deve ritenere essenziale,
per le Facoltà di scienze politiche, il termine extraeuropeo, intendendo
con ciò il complesso dei problemi storici, politici ed istituzionali
che riguardano i Paesi dell’America latina, dell’Asia, dell’Africa e del
Pacifico, condizionati dalle politiche dei Paesi più forti, tecnologicamente
più avanzati.
Anni fa, durante la spettacolare gemmazione accademica
di discipline specialistiche, fenomeno legato più a effimera moda
che a reali esigenze di approfondimento, si verificò, anche per
oggettivi motivi di mutamento delle relazioni internazionali, la scomparsa
di Storia e politica coloniale, sostituita nella maggioranza dei casi,
vale a dire nella maggioranza degli statuti delle Facoltà di Scienze
politiche, da un’ambigua Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici e, in
altri casi, da Storia dell’Africa mediterranea e del Vicino Oriente, Storia
dell’Africa subsahariana, Storia dell’Africa contemporanea, Storia del
subcontinente indiano, Storia dell’Estremo Oriente, ecc. In effetti scomparve
una disciplina di riferimento sui problemi dei Paesi extraeuropei, con
la conseguente cancellazione di storia e problemi relativi all’America
latina; lo studio dei continenti diversi dall’Europa divenne possibile
soprattutto in certe Facoltà di lettere e nei corsi di laurea in
storia ove insegnamenti specialistici già esistevano o vennero inseriti
negli statuti, anche senza immediata attivazione.
Nelle Facoltà di Scienze politiche la comparsa
di Storia e Istituzioni dei Paesi afro-asiatici fu accettata con sgomento
e talora con ilarità, più che con convinzione; ho definito
ambigua la disciplina perché fin dall’inizio non si volle comprendere
che averla “inventata” in omaggio alla decolonizzazione politica significava
averla impoverita sul piano dello studio delle relazioni internazionali,
con l’esclusione dell’America latina; né, allo stesso tempo, fu
sufficientemente difesa la sua dignità scientifica, per la verità
messa in dubbio più da particolari vicende concorsuali, - a cui
dette ampio risalto Carlo Giglio con il suo noto scritto “Il cavallo di
Caligola” - che non dalla dizione, su cui alcuni vollero, a mio parere
con impreveggenza, pesantemente e ironicamente disquisire.
Ho fatto il nome di Carlo Giglio e sarà l’unico
che farò in questa circostanza, perché egli costituì
la voce più convinta per il mantenimento di una materia che da altri
suoi colleghi allora in cattedra, veniva stravolta a seconda delle personali
competenze e convinzioni; si trattava di poche persone, legate più
ad esperienze africane che alla storia e politica coloniale intesa come
storia delle relazioni internazionali, storia della colonizzazione, storia
delle espansioni, storia dei Paesi extraeuropei.
Al momento della decolonizzazione sembrò che fosse
opportuno, per la dignità dei Paesi assurti alla libertà
politica, escludere dalla nomenclatura universitaria il termine coloniale,
nel migliore dei casi in una generosa illusione che il processo potesse
portare i nuovi membri della comunità internazionale alla piena
indipendenza, o forse nella cinica convinzione che fosse necessità
dei tempi indulgere all’uso di termini nuovi che tuttavia nulla cambiavano
nella pratica delle relazioni internazionali. In altri Paesi, europei ed
extraeuropei, rimasero nella terminologia universitaria la Storia della
colonizzazione, la storia della decolonizzazione, la storia del colonialismo,
la storia dell’imperialismo, ecc.; da noi si pensò forse che cancellare
storia e politica coloniale potesse ridare verginità al nostro paese
o che i problemi legati a quell’esperienza fossero improvvisamente divenuti
trascurabili, non importanti, privi di effetti sul mondo contemporaneo.
Per quanto attiene alla formazione dei giovani iscritti
alle Facoltà di scienze politiche, durante il pullulante sviluppo
di discipline specialistiche, la difesa di storia dei Paesi afroasiatici,
divenuta storia e istituzioni in omaggio ad uno dei cattedratici, sembrava
una battaglia di retroguardia, malgrado il fatto che nelle Facoltà
di lettere e nei corsi di laurea in storia apparissero “storia e istituzioni”
di questo e quel paese, di questo e quel continente.
Mi sembra di poter affermare che mentre si andava profilando,
grazie allo straordinario e incalzante sviluppo dei mezzi di comunicazione,
l’opportunità, la convenienza, la necessità di una riflessione
su tutti i fenomeni politici del mondo contemporaneo, tanto che Facoltà
universitarie di antica tradizione si rendevano conto delle nuove circostanze
e adeguavano a queste i propri ordinamenti, nelle Facoltà di scienze
politiche, costituzionalmente legate allo studio e all’analisi dei problemi
internazionali, si frammentava l’unica disciplina che offrisse uno sguardo
d’insieme su tali problemi e addirittura si facevano scomparire l’America
latina e i Paesi del Pacifico dalla conoscenza dei giovani.
Il nostro è davvero un paese di incomprensibili
contraddizioni; da un lato si aumenta il numero delle discipline che portano
un sensibile e originale contributo scientifico, didattico, culturale alle
giovani generazioni, tanto più bisognose in quanto meno preparate,
salvo rare eccezioni, dalla scuola superiore; d’altro lato si priva la
Facoltà di scienze politiche di una disciplina che fornisca uno
sguardo d’insieme almeno sui problemi politici internazionali. La storia
delle relazioni internazionali è stata disciplina eminentemente
eurocentrica; deve la sua fama soprattutto agli studi e alle ricerche sulle
relazioni fra i Paesi europei, sui Paesi “che contano” per dirla banalmente
e in breve, mentre il ruolo, le istituzioni, le dinamiche sociali dei Paesi
extraeuropei, fattori indispensabili per lo sviluppo della conoscenza del
mondo contemporaneo, vengono marginalizzate.
È noto che le Facoltà di scienze politiche
non preparano i giovani a sbocchi professionali specifici ed esclusivi,
malgrado gli indirizzi in cui si suddividono nel biennio cosiddetto di
specializzazione; anche per questo motivo mi pare che una disciplina di
base che apra la conoscenza ai problemi globali sia non solo opportuna,
bensì necessaria; le storie specialistiche si distinguono per analisi
dettagliate, tematicamente e cronologicamente differenziate, di determinate
aree geografiche, di continenti o di subcontinenti. In Italia, attualmente,
dopo l’autonomia universitaria, le storie specialistiche sono possibili
soltanto in presenza di notevoli, ragionevoli risorse finanziarie; in ogni
caso trovano, a mio parere, dignità scientifica e per tradizione
nelle Facoltà di lettere e nei corsi di laurea in storia. Nelle
Facoltà di scienze politiche si deve privilegiare lo studio storico
degli aspetti internazionali, del ruolo e delle dimensioni nella dinamica
globale dei vari Paesi che costituiscono la comunità internazionale.
Storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici non è insegnata in tutte
le Facoltà, né dove esiste è sempre obbligatoria;
alcune sedi hanno le storie “continentali” - dico così per brevità
- ma si tratta di insegnamenti, nella maggioranza dei casi, opzionali e,
in quanto “specialistici”, geograficamente o, se si preferisce, territorialmente
limitati; dobbiamo esser grati a quei colleghi che, dopo un’iniziale diffidenza,
si sono poi battuti per inserire negli statuti e attivare storia e istituzioni
dei Paesi afroasiatici, coperta adesso da professori di prima e seconda
fascia di notevole spessore.
Non mi si venga a dire che dobbiamo guardare all’estero,
sia in Europa che altrove, perché nelle Facoltà di scienze
politiche la storia è quasi ignorata o relegata in gruppi di discipline
opzionali o circoscritta a temi particolari, come, ad esempio, a Leuven
la Neuve, ove ci si occupa del mondo arabo contemporaneo.
Io penso ad una materia - sulla cui nomenclatura si può
discutere, perché se nella nostra tradizione accademica è
stata presente storia dei Paesi extraeuropei, si potrebbero accettare “politica
internazionale”, o geopolitica, formula di moda in alcuni Paesi, o anche,
al limite, geostrategia - che s’innesti sul tronco di storia delle relazioni
internazionali ma dedicata prevalentemente ai problemi dei Paesi extraeuropei,
sia nei loro rapporti reciproci, sia nei rapporti con Europa, Stati Uniti,
Canada e Giappone senza trascurare gli aspetti fondamentali dei loro ordinamenti
interni. Una materia che sul piano didattico preveda caratteristiche interdisciplinari;
ad esempio, le caratteristiche fondamentali del diritto musulmano, imprescindibili
per la comprensione della politica dei Paesi arabi, teorie o norme che
altre discipline ritengono obsolete (come, sempre ad esempio, la neutra
definizione di territori non autonomi creata dall’art. 73 della Carta dell’ONU),
ma storicamente importanti per comprendere atteggiamenti internazionali
di uno Stato, nella questione specifica la posizione di Panama o dell’India;
e, ancora prendendo ad esempio l’India, come parlarne senza una seria conoscenza
delle sue stratificazioni sociali?
Mi sembra evidente che la mia proposta mette in rilievo
soprattutto l’importanza didattica della materia che, per sfuggire a probabili
accuse di dilettantismo o di pressappochismo, abbisogna di professori la
cui produzione nel campo della personale competenza, naturalmente variegata
data l’ampiezza della disciplina, risponda alle normali, consuete regole
di originalità e scientificità. Ed oggi, fortunatamente,
studiosi che possano far parte di un settore scientifico-disciplinare come
quello ideato, in cui dovrebbero riunirsi professori di storia dell’Africa,
storia dell’Asia, storia dell’America latina, storia dei Paesi del Pacifico
(e materie affini) non soltanto non mancano, ma sono di alta qualificazione
scientifica.
Immagino le proteste, le accuse, l’allarme per questa
proposta, giacché ricordo benissimo tutte le obbiezioni che a suo
tempo si fecero per storia e istituzioni dei Paesi afroasiatici, ma si
tratta di obbiezioni senza fondamento. Retorica, pretestuosa, vecchia,
è la critica sulla ampiezza della materia; si è mai fatto
un rilievo all’ampiezza di discipline come “Storia moderna”, “Storia contemporanea”?
È noto che nell’ambito di tali materie ciascuno si dedica ad un
particolare settore per quanto riguarda competenza e produzione specifica;
ciò non dovrebbe essere lecito né comprensibile in un’altra
disciplina?
Il passaggio dalla dipendenza alla sovranità politica,
la dipendenza economica, la marcia verso la democrazia rappresentativa,
la conquista dei diritti civili e politici, la garanzia dei diritti umani,
la contraddizione fra tutela di tali diritti e sviluppo, la cooperazione,
sono elementi essenziali per la conoscenza del mondo contemporaneo; le
discipline specialistiche che se ne occupano limitano le loro analisi a
campioni che non sono né possono essere globalmente rappresentativi,
ma soltanto indicativi.
La storia dei Paesi extraeuropei deve premettere la ricostruzione
storica all’analisi comparativa, alla disquisizione teorica; che senso
ha, per esempio, l’analisi dei problemi della Somalia, o della Corea, o
del Guatemala, studiati isolatamente, come scissi dalla realtà politica
globale? Ogni lavoro di tal genere ha validità scientifica pari
alla serietà della ricerca, della informazione, della documentazione,
del rigore filologico, ma non può essere l’esclusivo strumento di
formazione di un gruppo di studenti universitari nell’ambito di una disciplina.
Io credo che non si possa studiare il particolare senza avere una visione
generale, complessiva, dei fenomeni politici contemporanei e per questo
sostengo la necessità di una disciplina di base, obbligatoria, fondamentale
per la Facoltà di scienze politiche, da denominare storia e istituzioni
dei Paesi extraeuropei o geopolitica.
Si pretende che i nostri studenti conoscano alla perfezione
Hobbes e Kant e non ci si preoccupa che sappiano qualcosa sui regimi dell’India,
dell’Australia o cl Cile?
È evidente che ogni professore deve continuare
a professare ciò che meglio conosce nel corso monografico, che tuttavia
ha senso soltanto se inserito in un quadro generale che aiuti e completi
quanto più possibile la formazione dei giovani; e non mi si dica
che ciò non è scientifico, perché, ad esempio, quando
si approfondiva lo studio di Sallustio, era obbligatorio conoscere tutta
la storia della lingua e della letteratura latina, dalla Cista Ficoroni
a Lattanzio. Voglio dire, per esser più chiaro, che un corso monografico
non può prescindere, per la formazione del giovane, dalla storia
della espansione coloniale, della decolonizzazione, dei problemi dello
sviluppo e del sottosviluppo, dei regimi autoctoni e di quelli importati,
ecc. A chi verrebbe in mente di far studiare, sempre ad esempio, soltanto
l’anatomia della mano, senza pretendere la conoscenza della anatomia umana?
Il vero problema, pertanto, è quello del riferimento manualistico,
che già una volta abbiamo affrontato, per la verità senza
trovare molte concordi opinioni; ma è certo che un brillantissimo
corso monografico, seppur altamente istruttivo sul piano metodologico,
non può sostituirsi alla conoscenza generale del mondo contemporaneo,
che, a quanto mi consta, non viene impartita in nessuna disciplina storica.
L’organo dell’Associazione di Studi Extraeuropei, «Africana»,
vede il contributo di studiosi appartenenti a diversi settori disciplinari
perché continuo ad alimentare la speranza che il CUN voglia rivedere
le sue posizioni e creare un settore “extraeuropeo”, imperniato sulla storia
e le istituzioni, per colmare un’evidente lacuna negli studi delle Facoltà
di scienze politiche, da cui dovrebbero uscire giovani informati sulle
varietà di regimi esistenti nella casa comune, sulle relazioni internazionali
dei vari Stati, sulle prospettive concrete e sugli accordi di cooperazione.
Mi auguro che questa mia opinione, - del resto suffragata dalle conclusioni
deliberate in una riunione pisana del febbraio 1995 a cui parteciparono
diversi colleghi, basata sulla esistenza del “Centro Studi sui Paesi extraeuropei”
dell’Università di Pavia e sul dottorato “Storia, istituzioni e
relazioni internazionali dei Paesi extraeuropei” dell’Università
di Pisa a cui collaborano le Università di Torino, Roma e Trieste
-, possa suscitare un fecondo dibattito e contribuire alla formazione del
settore disciplinare invocato. Mi preme rimarcare come non tutte le università
e non soltanto le Facoltà di scienze politiche, possano contemporaneamente
attivare insegnamenti relativi alla storia e politica dell’Africa, dell’Asia,
dell’America latina e dei Paesi del Pacifico, per i limiti finanziari a
cui ho già accennato; pertanto una disciplina che riunisca, affronti
e valuti i problemi comuni a tali Paesi, lasciando al singolo professore
la consueta costituzionale libertà di ricerca, di insegnamento ed
effettuazione del corso, appare essenziale, utile e necessaria.